venerdì 16 ottobre 2015

Funes oracolare

Lo sguardo di Ireneo Funes incide la scorza delle cose con chirurgica precisione, le incendia, ne domina la vampa e le conclude in cenere nel breve spazio tra due battiti di ciglia.
Borges, nel suo racconto1, parla di questo diciannovenne paralizzato e costretto a letto (personaggio fittizio – sia chiaro per chi non ha la possibilità di leggerlo o non conosce l'autore argentino, poiché è quasi scontato per coloro già familiari con la sua fantasia – ma non del tutto irreale2) in grado di cogliere con la vista l'intera sfera dettagliata e multiforme di ciò che è osservabile. Vorrei in questo ciclo parlare della sua natura formidabile, spero senza annoiare e con il proposito di osservare brevemente i motivi del fascino che Borges suscita in questo racconto.

Noi, in un'occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d'una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell'alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d'un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho.”

Non è lo sguardo strabiliante l'unica qualità che Borges gli concede dunque, poiché lo dota anche di una memoria infallibilmente espansa – e così quanto infinitamente accurata è la lama visiva che seziona il reale attraverso i suoi occhi, tanto infinitamente lucido è il sistema dei ricordi di Funes, nei quali sono registrati anche le più sciocche inezie che abbiano indugiato brevemente sotto il suo sguardo. Qualitativamente, Funes sogna come noi vegliamo, sottolinea Borges, tendendoci una mano nell'immaginare cosa una lucida veglia significhi per lui.



Ora, è interessante che vista e memoria siano in lui intrecciati tanto fittamente: Funes ricorda tutto ciò che vede, letteralmente, e rivede tutto ciò che ricorda, tanto che le due peculiarità costituiscono in lui un unico senso, onnipresente nel tempo e nello spazio dei suoi pensieri. È un senso che non può fallire, e cui Funes non può sottrarsi se non forzosamente: passa il suo tempo al buio (un'intera giornata di luce assommerebbe in lui dettagli e memorie incommensurabilmente vasti), e quando cerca di dormire è costretto a concentrare il suo pensiero su cose che non conosce – angoli bui, luoghi che non ha ancora visto – perché “dormire è distrarsi dal mondo” e, a lui, risulta d'una fatica formidabile, tanto il suo è ricco e vasto. Non manca la vertigine nel calcolare l'esistenza di Funes: ogni visione si fa indissolubile, marcata, sovrapponibile a ciascun'altra nella sterminata landa della sua memoria, aumentando così a dismisura il centro di gravità attorno ai suoi occhi, poiché quel che vi passa davanti rimane eternato, privato della sua dimensione caduca e celebrato nel ricordo come mai altro uomo ha potuto celebrare il proprio dio. Borges costituisce un individuo che non è divino, ma che costituisce la causa prima della divinità, come se su di lui s'assommassero le vicende dell'uomo, spoglie e terrene, un attimo prima di esser guardate dai suoi occhi e venire elette al rango di fati incorruttibili – e pure parliamo di un infermo che vive nella penombra la quasi totalità del suo tempo, considerazione che, unita alla capacità teurgica di dar natura eterna alle cose, potrebbe far di Funes un perfetto esempio di oracolo. Esempio anomalo tuttavia, perché l'eternità che i suoi occhi dispongono ordinatamente nel circuito mnemonico non riguarda alcuna veggenza futura, bensì esclusivamente passata.
Se ne conclude che tanta meraviglia sensoriale rimane tristemente puro gioco per Funes, poiché su di lui si accavallano, certo, le responsabilità dell'oracolo, ma senza che queste divengano fruibili in quanto oracolari – lo si potrebbe chiamare un oracolo mozzato, incompleto, fondamentalmente aberrante. Così le uniche sue occupazioni rimangono ludibri personali – lo studio delle lingue, la creazione di bizzarri sistemi di numerazione, l'incessante fantasticare – che fan di tanta gravità visiva un pozzo indicibilmente fondo, più che una torre illuminata (e luminosa), un prodigio di sola potenza non realizzata, costretto a sopportare il peso di una memoria e dunque di una vita divina senza poter compiere alcun atto in tale natura. Lo si potrebbe considerare un Prometeo costretto alle catene del proprio sguardo, se non fossero proprio quelle catene a costituire il motivo della sua divinità. Nessuna redenzione attende Funes, poiché egli non ha colpe da espiare, né ragione di essere punito, ma solamente una morte da aspettare – singolo apice denso e umano, di contrasto vertiginoso ad una vita tanto disumanamente vasta.

1Jorge Luis Borges, Finzioni, Torino, Einaudi, 2014.
Le citazioni seguenti sono tratte da questa edizione. Il racconto lo potete trovare qui: http://lab4.psico.unimib.it/nettuno/forum/free_download/funes__o_della_memoria.pdf
2http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/12_settembre_24/ipertimesia-ragazzo-ricordi_eef25caa-0650-11e2-a9b9-923643284af5.shtml

lunedì 27 aprile 2015

Il cinema, l'impossibile e l'intersoggettivo



Per quest'uscita di lavori della nostra Bottega, dedicata al tema dello sguardo, ho deciso di far riferimento al film del 1951 Strangers on a train, in Italia uscito con il titolo Delitto per delitto (L'altro uomo)1, di Alfred Hitchcock. Tenteremo di mettere in luce una dinamica complessa segnalata dal mezzo cinematografico che potremmo riassumere come dipendenza dell'uomo dal registro del significante, cercando di argomentare come questo possa disporci ad un ripensamento delle nostre pratiche, non solo di spettatori, ma anche di "soggetti supposti impegnati a pensare" in generale.
Mi concentrerò per lo più su due sequenze di grande interesse: l'omicidio di Miriam ripreso attraverso il riflesso degli occhiali della vittima e la coazione a ripetere attraverso cui Bruno, conversando con un'annoiata signora borghese ad un ricevimento, la sottopone ad uno strangolamento simulato, un “gioco di società” che se dal lato della signora è bovaristico, isterico, dal lato di Bruno mostra il proprio carattere psicotico. Quest'ultimo infatti, guardato dalla sorella di Ann Morton, anch'essa bionda e occhialuta come Miriam, sfiora la tragedia dato che in preda ad un automatismo non cosciente, Bruno non riesce a fermarsi e quasi uccide la signora.
Per cominciare con la scena dell'omicidio di Miriam, la sua specificità è quella di esser rappresentata nel riflesso degli occhiali della vittima caduti a terra durante la colluttazione.


Possiamo fin da subito dire che l'azione si svolge per noi, presso uno schermo, ma la particolarità sta nel fatto che lo stesso Bruno pare accorgersene. Dagli occhiali Bruno si sente come spiato, è come se ci fosse effettivamente stato un testimone.
Lo schermo degli occhiali quindi a) guarda il delitto di Bruno, b) ci dispone come guardanti suscitando in noi, non solo l'orrore per l'assassinio, ma anche e contraddittoriamente ci fa entrare nell'alveo delle preoccupazioni di Bruno: si deve sbrigare altrimenti sarà scoperto, ecc...
Insomma tale supporto che è lo schermo lo potremmo definire come ciò che descrive il campo presso cui si dispongono le parti, ma dovremmo aggiungere anche che il campo è dove emergono le possibilità e le impossibilità implicate in un determinato regime di relazioni tra parti, nonché l'articolazione legale ivi implicata. Nel caso specifico emerge l'oscenità dell'assassinio, il suo impattare in questa fattispecie con le regole di convivenza (il che emerge sia nel nostro orrore che nella circospezione di Bruno) e al tempo stesso emerge l'oscena tendenza ad entrare in contatto, benchè mediatamente, con tali eventi traumatici (guardarli in questo caso da parte nostra, compiere l'omicidio da parte del delirante Bruno). Abbiamo cioè descritto una legalità, ma che ne é dell'impossibilità?
Volendo procedere in questo senso ci potremmo chiedere chi sta guardando Bruno secondo Bruno stesso, al che ci dovremmo rispondere che è la sua vittima che lo sta guardando. Miriam, nei suo occhiali, sta guardando il suo assassinio e la propria uccisione.
Non ci dobbiamo però dimenticare che Miriam viene uccisa al posto di un altro, ovvero il padre di Bruno, suo vero obbiettivo: nell'uccidere Miriam, Bruno sta compiendo l'atto radicale, all'interno dell'ordine simbolico, l'ambito legale, di uccidere suo padre, il significante per la legge stessa.
Possiamo quindi già da subito collegare al supporto degli occhiali una funzione precisa: quella di avvincerci all'interno di una dinamica complessa dove la domanda sorge spontanea: “c'è qualcuno dietro agli occhiali che guarda e chi starebbe poi dietro agli occhiali stessi”?
Possiamo rispondere immediatamente: dietro agli occhiali non c'è nessuno, o meglio c'è il Grande Altro, intendendo per Grande Altro lo stesso regime del significante, la struttura condizione di possibilità di ogni significazione, il sistema di relazioni che determinano la posizione di ogni membro. Bisogna, per capirsi bene, dire che se ogni significante viene a significare qualcosa di determinato solo all'interno del complesso di relazioni che li organizza, il Grande Altro è il significante unario per l'intera struttura di relazioni.
Ci troviamo dinnanzi al paradosso per cui se ogni determinazione si definisce solo all'interno della totalità, necessitiamo contemporaneamente di dire la totalità stessa con un significante che al tempo stesso non significa nulla ed è condizione di possibilità della significazione.
Quanto abbiamo brevemente esposto emerge con forza nella seconda scena che vogliamo analizzare: quella del “nuovo gioco di società” tra Bruno e la signora borghese, ma alla presenza di Barbara Morton.


Anche qui Bruno è guardato, ma succede qualcosa di strano: con un automatismo Bruno serra le mani attorno al collo della donna proprio in quanto è guardato da Barbara. Quest'ultima, in maniera evidente viene al posto di Miriam (portando occhiali simili ed essendo entrambe giovani e bionde).
Non va però dimenticato che Miriam viene al posto del padre di Bruno, possiamo quindi istituire, attraverso la serie Padre-Miriam-Barbara, una relazione riguardante Bruno tra lo sguardo della vittima e l'atto massimamente illegale.
Questa relazione tra sguardo e vittima è evidente, per altro, non solo per la frase di Barbara la quale, sconvolta dal brutto episodio, dice alla sorella: “[Bruno] aveva le mani attorno al collo di quella donna, ma è me che stava strangolando”, ma anche per l'intitolazione data da Bruno al quadro della madre, raffigurante uno spaventoso essere oscuro e sformato, dotato però di uno sguardo agghiacciante, ovvero “il Genitore”; se aggiungiamo poi a questa relazione il fatto che lo sguardo agghiacciante è di colui di cui Bruno si vuol sbarazzare, ovvero suo padre, allora la relazione tra parricidio e l'esser osservato dal padre emerge con forza.

Tutto ciò ci permette di andare più a fondo su quanto sostenevamo poco sopra e cioè che nel supporto che segnala lo sguardo, non cogliamo solo ed eminentemente una significazione determinata, una relazione tra due personaggi, ma cogliamo quell'effetto di discorso che abbiamo definito Grande Altro come condizione di ogni significazione, come elemento che si sottrae alle relazioni pur inerendovi, segnalando un dinamica di complicazione, di decentramento rispetto al concepirsi come coscienza da parte di chi è inserito in questo reticolo di relazioni.
Dobbiamo però ora fermarci un attimo, non abbiamo infatti ancora definito che cosa sia lo sguardo, pur avendo fatto abbondante uso di questo significante. Per procedere ora verso una breve chiarificazione dovremo concentrarci su quella che pare la struttura fondamentale che regge le relazioni all'interno del film e che ci siamo permessi di schematizzare, per altro in maniera molto inadeguata.

Sintetizzando potremmo dire che se Guy rispetta la legge, pur vorrebbe disfarsi di Miriam (lo dice testualmente ad Ann in un impeto di rabbia). E' Bruno a realizzare il suo desiderio, a realizzare ciò che Guy vuole, ponendo quest'ultimo in una situazione di colpevolezza simbolica (è stato realizzato ciò che voleva, ma non avrebbe mai fatto, non gli era permesso fare) e di debito simbolico con Bruno (ciò che Guy ha ottenuto ora lo deve ripagare).
Bruno invece è chi compie lo sconfinamento radicale, ma non in modo diretto (le relazioni violente tra Bruno-Padre e Guy-Miriam non sono mai dirette): in linea tratteggiata abbiamo segnato la relazione violenta, oppositiva che da Bruno va al Padre e con una freccia orientata la situazione di appagamento-colpevolezza che attraverso Miriam invade Guy.
Se appunto Bruno, tormentando Guy, mostra a quest'ultimo la realizzazione del desiderio osceno di quest'ultimo, è invece la madre di Bruno a dire al figlio quanto esso voglia: vuole uccidere quello sguardo osceno e inquisitore.
E' notevole però che proprio quello sguardo, nella seconda scena da noi analizzata, sia quanto scateni l'atto omicida, pur non potendo esser sopportato da Bruno che infatti poi sviene. E' come se Bruno, volendo sopprimere chi sta al posto della legge e lo pone al posto dello scapestrato, inadatto e criminale (Hitchcock ci presenta la severità del Padre che, nell'unica scena in cui lo vediamo paventa la possibilità di rinchiudere in manicomio il figlio), dicevo volendo egli sopprimere il Padre, sul punto di compiere questa negazione, non faccia che affermare quanto vuole sopprimere.
C'è in tutto ciò una volontà di esser punito che nella sua violenza si presenta nella sua veste più distruttiva. Non c'è compromesso di sorta, la Legge deve morire, ma in tutto ciò si mostra come la negazione della legge sia l'impatto distruttivo con essa. Un sistema legale insomma presenta sempre un lato nascosto che nell'opposizione alla legge stessa presenta una componente di godimento: lo sguardo osceno e inquisitore è quanto guarda l'opposizione ad esso stesso e ne gode: ecco l'impossibile nel suo effetto traumatico!
Presenza oscena dello sguardo e parricidio, come dicevamo prima, sono complementari, la legge che si presentifica presso Bruno nel modo dell'opposizione mostra anche un suo lato nascosto, osceno: un'articolazione simbolica che è quanto organizza le significazioni, i posti occupati da ogni membro della relazione, come abbiamo detto prima, e che necessita di un significante che indichi l'intero regime delle relazioni, presentificando però quanto regge quelle relazioni essendone escluso.
Da questo punto di vista ogni soggetto è assogettato al posto da esso occupato nel regime del significante, ma proprio in quanto ogni soggetto si coglie all'interno di questo regime (presso S' insistente su S''), emerge al tempo stesso il regime di dipendenza, di essere per altro, di mancanza originaria a cui è soggetto il soggetto come assogettato. Questo elemento è paradossalmente presente nella relazione della legge proprio in quanto ne è estraneo, in quanto è osceno, fuori dalla scena, fuori dal quadro in cui ci cogliamo guardando lo schermo.
Dice Lacan, parlando di tale elemento paradossale: “è un oggetto che in realtà non è che la presenza di un incavo, di un vuoto, occupabile come dice Freud, da qualsiasi oggetto, e di cui non conosciamo l'istanza se non sotto forma dell'oggetto perduto, piccolo a. L'oggetto piccolo a non è l'origine della pulsione orale. Non è introdotto a titolo del nutrimento primitivo, è introdotto dal fatto che nessun nutrimento soddisferà mai la pulsione orale, se non contornando l'oggetto eternamente mancante”2. Se noi quindi, in questa citazione di Lacan, sostituiamo alla pulsione orale la pulsione scopica possiamo iniziare a capire di cosa si tratta nello sguardo: esso è l'oggetto piccolo a, quell'oggetto mancante che proprio in quanto fa mancanza (da noi rappresentata sopra con S' insistente su S'') è ciò che dinamizza il simbolico proprio nel suo buco da noi colto nel Nome-del-Padre (il significante per la totalità delle relazioni in gioco): è proprio perchè nessuna situazione può appagare la pulsione scopica che noi persistiamo a concepirci come “esseri guardati”3. E' lo scarto di godimento (di muto essere presso sé, regime permesso solo all'Altro) che non può, in quanto scartato dal simbolico, che dinamizzare lo stesso come sua componente complementare e al tempo stesso illecita4. L'oggetto piccolo a é impossibile non in quanto non si attua mai, ma in quanto si attua sempre nella forma del non ammissibile dentro un quadro legale, é ciò che il quadro legale deve elaborare per non frantumarsi.
Abbiamo quindi visto come il cinema con i suoi supporti possa elaborare quest'incandescente materia attraverso la sua capacità di darci a vedere, nella fondamentale ambiguità per cui non solo vediamo qualcosa, ma vediamo qualcosa in quanto siamo presi dallo sguardo, in quanto siamo dati allo sguardo, catturati in un elaborazione che permette di decentrare la serie delle nostre autorappresentazioni, proprio in forza del fatto che siamo noi stessi visti in questo effetto ottico trascendentale, se così posso dire. La nostra coscienza con le sue rappresentazioni qui si scopre determinata da Altro ed è chiamata ad indagare quanto quest'ultimo ha da dirci, ad esempio attraverso il cinema, il quale può talvolta porci nel punto in cui siamo costretti a capirci qualcosa
Va però con forza sottolineato che il capirci qualcosa qui è mediato dal cinema e non va quindi dimenticato quanto afferma lo stesso Hitchcock: “i film muti sono la forma più pura di cinema. […] Quando si racconta una storia al cinema non si dovrebbe ricorrere al dialogo se non quando è impossibile fare altrimenti” (F. Truffaut Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 51). Nel cinema si assiste sempre di un mostrare, si tratta di espressione visiva e quindi, se volessimo verbalizzare la speranza che regge le nostre brevi riflessioni, questa non sarebbe altro che quella di un invito presso le grandi visioni che il cinema ci presenta.

1La trama potrebbe essere riassunta nel modo seguente: Guy Haines (Farley Granger), un giocatore di tennis che sta attraversando una difficile separazione dalla moglie Miriam (Laura Elliot), la quale non vuole concedere il divorzio per sfruttare il successo del marito, trova in treno quel che parrebbe essere un suo scapestrato ammiratore, Bruno Anthony (Robert Walker). Bruno, discutendo con Guy dell'odio di quest'ultimo per la moglie e della volontà dello sportivo di rifarsi una vita con la figlia del senatore Morton, Ann (Ruth Roman), gli propone uno scambio per cui se il primo avesse ucciso Miriam, il secondo avrebbe dovuto uccidere l'odiato padre del primo. Guy prende la sorprendente proposta per uno scherzo, ma quando Bruno compie il delitto si innesca una dinamica per cui quest'ultimo inizia a perseguitare il primo per fargli compiere il delitto dovuto, minacciando di incriminarlo. Guy infine riesce a fermare Bruno, riscattandosi.
2J. Lacan, Seminario libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, p. 174.
3ivi, p. 74.
4Di contro ad alcune ipotesi utopistiche proprie di certo ecologismo che sogna un mondo pulito, armonico e in cui tutte le specie si rispettano in modo molto liberale e il cui sogno credo sarebbe una specie di carta dei diritti inalienabili del terrestre, dove è per altro fin troppo facile capire chi occuperà il posto di Rappresentante della volontà generale che questa carta dovrebbe produrre, bisognerebbe forse mostrare che questo piccolo a non è altro che la nostra merda come quella degli altri componenti dell'ecosistema. Un sistema, un insieme legale, per mantenersi logicamente è soggetto a delle faglie in cui ciò che esso stesso non ammette emerge come ciò che effettivamente implica, il che significa che della merda bisogna farsene qualcosa. Pensare ad un mondo armonico ed edenico vuol dire denegare pericolosamente lo sporco che sostiene la pulizia in quanto tale.


domenica 19 aprile 2015

Il limite e l’orrore: Dalle catene di Prometeo al Mostro di Frankenstein

    È sempre difficile trattare di una tematica tanto vasta e così differentemente declinata come è quella dell’horror, soprattutto per chi, come me, non ne è particolarmente attratto. Mancando, dunque, di competenze adeguate per poter anche solo azzardare possibili riferimenti cinematografici, ho scelto, come battesimo del fuoco alla “Bottega della Pecora”, di proporre, a chi volesse seguirlo, un breve attraversamento di due testi classici a me più familiari: il Prometeo incatenato di Eschilo e il Frankenstein di Mary Shelley. Il fine sarà quello di mostrare e, possibilmente, problematizzare, in una sorta di scheletrica genealogia, il fil rouge costituito dalla relazione che tiene insieme l’oltrepassare la misura e l’emergere dell’orrore che lega le due opere e che oggi soggiace ancora in parte alla nostra idea di horror.
            Che la tragedia eschilea, probabilmente composta e rappresentata nella prima metà del V secolo a.C., costituisca la sua azione drammatica proprio intorno alla coppia concettuale poco fa indicata è chiaro sin dai primi versi recitati:

[…] Perché lui ha rubato il fuoco per darlo agli uomini: il tuo splendido fuoco, origine di ogni arte e di ogni tecnica. Deve pagare per questo crimine. Così imparerà a rispettare il potere di Zeus e la smetterà di aiutare gli uomini.[1]

            Il titano Prometeo ha rubato il fuoco, appannaggio esclusivo degli dei, per farne dono ai mortali contravvenendo così ad un esplicito ordine di Zeus, novello signore degli dei olimpici, che glielo aveva proibito: è evidente come il titano, ribellandosi al comando, abbia infranto l’ordine e la misura che Zeus, vinta la guerra con il padre ed innalzatosi a nuovo garante della regolarità del cosmo, aveva istituita. La pena, nonostante l’aiuto che il titano aveva offerto a Zeus nella sua lotta parricida, non può che essere orribile, terrificante ed esemplare: non si è, infatti, disobbedito semplicemente al decreto di un signore, di un re che, quindi, desidera vendicare la sua sovranità; più grave è che l’azione abbia infranto l’ordine supremo che mette in forma il cosmo, strappandolo al caos che era invece presente al tempo della guerra tra dei e titani, di cui Zeus è fautore e garante. E poiché infrangere la misura suprema richiede una punizione supremamente terribile, Prometeo viene incatenato ad una rupe ai confini del mondo dove, per il resto dell’eternità, sarà  sottoposto ai più orribili supplizi che, sebbene non rappresentabili in scena, Eschilo riesce a presentificare efficacemente nella loro pallida e livida enormità:

[…] il padre Zeus, con il tuono e il fuoco del fulmine, manderà in frantumi questo strapiombo e ti seppellirà sotto la roccia, stretto ad un abbraccio di pietra. Alla fine, dopo molto tempo, tornerai alla luce. E allora il cane alato di Zeus, l’aquila assetata di sangue, ti farà a brandelli. E come sarà ingorda! Verrà tutti i giorni senza invito a banchettare, a divorarti il fegato fino a fartelo nero. Non aspettarti una fine per questo tormento.[2]

            Solo un dolore così smisurato, infatti, può riparare l’offesa di chi ha cercato di attentare alla più sacra di tutte le misure, la legge di Zeus, padre degli dei.
            Il salto temporale, lungo più di due millenni, che collega questo desolante paesaggio di sofferenze inumane  con la Ingolstadt del XVII secolo, la cittadina tedesca in cui prende corpo la vicenda del giovane dottor Victor Frankenstein, appare certamente quantomeno azzardato: a suggerire, tuttavia, che tra la tragedia di Eschilo e il romanzo inglese, che prenderemo ora in considerazione, esista un legame è la stessa autrice Mary Shelly. Quando, nel 1818, la poco più che ventenne scrittrice inglese dà alle stampe il suo romanzo, nato grazie alla giocosa proposta di lord Byron, sceglie come titolo per la suo opera Frankenstein, o il moderno Prometeo. Che sin dal titolo si faccia riferimento al titano greco di cui abbiamo sinora trattato orienta in senso positivo la ricerca della struttura che, come nella tragedia eschilea, tiene insieme l’orrore con la perdita della misura. Il ruolo di protagonista, prima di Prometeo, è ora svolto dal giovane e promettente dottor Victor Frankenstein: nato e cresciuto a Ginevra in un’ottima famiglia, il giovane Frankenstein, da sempre  appassionato di alchimia e medicina, si trasferisce a Ingolstadt in seguito alla repentina e dolorosa perdita della madre per ampliare i suoi studi alla filosofia naturale con un unico obbiettivo, quello di riportarla in vita. Le conseguenze, come è facile presagire, saranno tragiche: l’esperimento che annulla il confine assoluto che si erge tra la vita e la morte, tra l’al di qua e l’al di là, genera un’aberrazione, un mostro, un demone, come dice lo stesso Frankenstein[3], che porterà la vita del giovane dottore al tracollo. Come nella dramma prometeico, anche Mary Shelley traccia, dunque, una parabola che ha i suoi fuochi nel superamento di un limite costitutivamente invalicabile e nell’orrore tremendo che a causa di quell’atto si scatena.

            Il nostro breve percorso sembrerebbe, dunque, essere giunto alla sua conclusione: è stato mostrato, infatti, come il nesso che tiene uniti da una parte la trasgressione dei limiti e dell’altra l’emersione della catastrofe orrifica e atroce attraversi e caratterizzi entrambi i testi da noi presi in analisi. Eppure qualcosa che valga la pena di essere preso in considerazione ancora c’è e si tratta della differenza che intercorre tra i due sistemi di pensiero in cui la dinamica osservata si situa. Perché se è vero che tanto Prometeo quanto Frankenstein oltrepassano un confine che è loro comandato come invalicabile scatenando così i più tragici orrori, è, invece, radicalmente differente l’orizzonte di senso in cui l’azione di cui essi sono autori si colloca. Se, nella vicenda del dottor Frankenstein, è relativamente evidente come l’atto di creare una vita a partire dalla morte si configuri come equivalente dell’atto del dio onnipotente che nel nulla assoluto dice «Sia la luce!»[4] e, quindi, come la colpa del dottor Frankenstein ricalchi il crimine che Adamo compie mangiando dall’albero della conoscenza e, implicitamente, cercando di sostituirsi a Dio, la tragedia di Prometeo risulta più oscura e di difficile interpretazione. Prometeo, infatti, è letteralmente “colui che sa prima”[5]:

[…] Il futuro io lo conosco in tutti i suoi particolari: nessun male mi arriverà inaspettato.[6]
[…] Tutto questo io lo sapevo bene, e l’ho voluto, ho voluto macchiarmi di questa colpa.[7]

            Come più volte ricordato durante il corso di tutta la la tragedia, Prometeo conosce quali saranno gli sviluppi futuri della vicenda e, soprattutto, sapeva in anticipo quali sarebbero state le conseguenze del suo agire: eppure, a dispetto della tremenda punizione che sa già di dover ricevere, il titano ruba comunque il fuoco e ne fa dono agli uomini. Perché? Non perché mosso da un innato senso di filantropia. Nemmeno perché (come, invece, riterrà tutta la generazione di romantici a cui anche Mary Shelly appartiene) incapace di sottomettersi ai comandi del despota celeste Zeus. Lo fa perché sa che è suo destino compiere qual gesto, perché sa che è necessario farlo.

Bisogna che io sopporti il destino meglio che posso, perché, lo so, non si può lottare contro la forza di Ananke, non si può lottare con la Necessità.[8]
            La Necessità, il Destino, l’ineluttabilità che tiene unita, nella sua reciproca e necessaria successione, la totalità degli eventi, Ananke è la vera protagonista del dramma eschileo: come ideale cerchia delle cerchie, è solo al suo interno che tanto Zeus quanto Prometeo trovano la loro collocazione e il loro senso. La disobbedienza di Prometeo che di primo acchito era allora apparsa come un attentato all’ordine di cui Zeus si ergeva a garante riceve qui un altro significato: Prometeo infrange il comando celeste perché accetta e riconosce come il suo destino la necessità che per lui è prevista e cui Zeus stesso deve piegarsi, come testimonia il suo affanno per scoprire il senso delle parole profetiche che il titano gli rivolge. A differenza dell’esperimento del dottor Frankenstein che, spezzando il limite imposto da Dio tra la vita e la morte, si proietta idealmente nel nulla che precede la creazione, il furto del fuoco porta Prometeo ad infrangere l’ordine di Zeus ma, al tempo stesso, a rispettare l’ordine della Necessità che rende possibile ogni altro ordine: in ultima istanza, l’azione di Prometeo è sicuramente delittuosa ma, proprio perché inscritto in un orizzonte di senso e di razionalità più grande, l’orrore che si scarica sul titano riceve comunque una significazione che lo rende giustificato. Per dirla con le parole di Nietzsche, nel Prometeo, si comprende che per i Greci

tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto, e in entrami i casi ugualmente giustificato. Questo è il tuo mondo! Questo significa un mondo![9]






[1] Eschilo, Prometeo, traduzione e cura di Davide Sussanetti, Feltrinelli 2010, vv 6-11.
[2] Ivi, vv 1016-1025.
[3] Mary Shelley, Frankenstein, traduzione di Luca Lamberti, Feltrinelli 2011, pag. 227.
[4] Genesi 1, 3.
[5] Prometheus è ricavato dalla composizione della preposizione pro e del verbo manthano che rispettivamente significano “prima” e “imparare, apprendere, sapere”.
[6]Eschilo, Prometeo incatenato, vv 101-103.
[7] Ivi,vv 266-267.
[8] Ivi, vv 103-105.
[9] Friedrich Nietzsche, La Nascita della Tragedia, Adephi 2012, pag. 71.

martedì 14 aprile 2015

Baccanti e Cannibal Holocaust. Percorsi splatter tra grecità e postmoderno



Attraverso tale scena, indubbiamente tra le più efferate e brutali della storia del cinema, entriamo nel cuore del postmoderno. Il nostro intento è quello di considerare Cannibal Holocasut, caposaldo del cinema splatter italiano anni '80, come chiave di lettura dell'estetica postmoderna. Ma in che modo, quella che a prima vista può sembrare una banale e dozzinale scena di violenza gratuita, può essere in grado di attivare moduli interpretativi propri del contemporaneo? La nostra ipotesi è quella di intendere quest'opera come rivelativa del carattere pornografico del postmoderno, ovvero dell'impronta di ipervisibilità e assoluta sovraesposizione dell'immagine non solo in ambito estetico, ma come tratto distintivo dello statuto stesso della realtà. Nell'affrontare tale lavoro, seguiremo le utili indicazioni di Baudrillard riguardo alla pornografia della simulazione.
In prima battuta occorre però intraprendere un passaggio obbligato per un'opera che ci permetta di individuare in modo efficacie il paradigma opposto rispetto a quello emergente nel cinema splatter. Essa consente di rivelare come lo statuto dell'immagine orrorifica e della realtà stessa fosse inteso, in un contesto storico radicalmente diverso, attraverso una dinamica di nascondimento/s-velamento che contrasta con il modello postmoderno. Tale opera è Baccanti di Euripide. Di questa tragedia  vorremmo prendere in considerazione una sequenza in particolare: il racconto della morte di Penteo presente nel quinto episodio. Un servo del re di Tebe, di ritorno dal monte Citerone, luogo nel quale ha appena assistito alla macabra uccisione del suo padrone, si rivolge al coro delle baccanti, in assenza di ogni altro personaggio della città. Il percorso di Penteo verso lo sparagmós, pratica utilizzata nei misteri dionisiaci che prevedeva lo smembramento a mani nude di un animale o di un essere umano, viene descritto nei minimi particolari; attraverso un tessuto linguistico ricercato e un ricco uso di aggettivi, la scena dell'orrore è presentata nel dettaglio: «Agave ha la bava alla bocca e gli occhi stralunati: è fuori di sé, invasata da Dioniso, non bada alle parole di Penteo. Gli prende il braccio sinistro e, puntando il piede sul fianco di quel poveretto, gli strappa tutta la spalla: non poteva farlo da sola, era il dio a darle quella forza. Ino se lo lavora dall'altra parte per farlo a pezzi. Autonoe e tutto lo stuolo delle baccanti gli sono sopra. Non si sentono che urla confuse. Lui si lamenta finché ha fiato. Loro gridano esaltate per la vittoria. Una ha il braccio di Penteo, un'altra il piede ancora infilato nel calzare. Sul tronco gli sono rimaste solo le ossa: gli hanno strappato tutta la carne e, con le mani grondanti di sangue, si lanciano i pezzi come se giocassero a palla»[1].

Pompei, Casa Dei Vettii, Penteo

Risulta evidente da questo passo come l'elemento del macabro e dell'horror sia presente in modo consistente. Potrebbe sembrare, in un primo momento, che lo spezzone di Cannibal Holocaust con cui abbiamo aperto il presente lavoro e la descrizione dello sparagmós di Penteo in Baccanti presentino dinamiche di utilizzo estetico della componente dell'immagine raccapricciante molto simili. In realtà, vorremmo dimostrare il contrario sulla base di alcuni indizi significativi.
In primo luogo, occorre tenere presente che, sebbene minuziosamente descritto, il racconto del servo è mediato: Euripide infatti ricorre all'espediente narrativo dell'inserimento di questo evento macabro nel contesto di un resoconto di un personaggio al coro. Si presenta quindi una tendenza ad un progressivo s-velamento degli elementi più efferati dell'uccisione di Penteo, e non ad una immediata sovraesposizione di determinate immagini come si sarebbe potuta presentare attraverso, ad esempio, un'ipotetica articolazione del dialogo del quarto episodio tra Dioniso e Penteo.
In secondo luogo, la crudeltà e la brutalità dell'evento tragico sono mediate dall'innesto in un preciso schema sacrificale che rimanda a rituali misterici in onore di Dioniso: agisce quindi una componente evidentemente sacrale, nella quale si richiama l'atto con il quale l'iniziato ai misteri dionisiaci, cospargendosi del sangue della vittima, aspirava al ricongiungimento con l'Essere originario superando le forme del principium individuationis.
In terzo ed ultimo luogo, è necessario notare come l'atrocità della scena sia mediata infine dal fallimento dell'anagnōrismós, ovvero dal mancato riconoscimento da parte di Agave del figlio Penteo, che ha la funzione di esasperare il pathos finale della scena: «Penteo si strappa la fascia dai capelli: spera che la povera Agave lo riconosca e non lo uccida. Le accarezza la guancia e le dice: "Sono io, mamma, sono tuo figlio Penteo, il figlio che hai messo al mondo nella casa di Echione! Pietà, mamma, ho sbagliato, ma non ammazzarmi!"»[2]. Ciò contribuisce ad articolare la brutalità dell'evento secondo una dinamica per la quale continua a persistere una componente umbratile e velata agente insieme all'accurata descrizione dell'efferatezza dello smembramento.
Questi tre diversi elementi di mediazione ci consentono di individuare ciò che traccia la distinzione netta tra un uso dell'ingrediente horror messo in opera da una dialettica dis-velantesi, come emerge da Baccanti, e tra un utilizzo di questo stesso fattore in senso pornografico e ipervisibile, come invece in Cannibal Holocaust.
Nella scena dello squartamento della tartaruga infatti, vengono a mancare i tratti distintivi messi in luce precedentemente a proposito dello sparagmós di Penteo. Nell'economia generale del film non trova spazio alcuna mediazione.
In primo luogo, il ritrovamento del materiale girato dai reporter permette al professor Harold Monroe di prendere visione diretta delle immagini che testimoniano la bestialità e la disumanità della troupe: la realtà gli viene letteralmente "sbattuta in faccia", senza che vi possa essere alcuno spazio per un qualche tipo di distacco nella fruizione.
In secondo luogo, nel particolare della scena della tartaruga, non vi è alcuna sacralità che agisce retroattivamente all'azione compiuta dai reporter: il loro agire si caratterizza per una totale e smodata barbarie che non tende ad alcun recupero di una condizione originaria di unione con la totalità.
Infine, la scena gioca unicamente sugli aspetti fisici e corporali, secondo i canoni propri del genere splatter, eliminando ogni possibilità di coinvolgimento in elementi umani e caratteriali di singoli personaggi o flussi narrativi: i particolari sono ostinatamente posti di fronte allo spettatore, senza che possa trovare spazio l'immaginazione. Qui l'immagine autoreferenziale domina: l'eccesso e la smoderatezza rendono difficilmente sopportabile la visione.
Avendo tratteggiato in questo modo gli elementi che permettono di definire un radicale cambio di paradigma nell'uso del macabro e del ripugnante tra la concezione tragica greca e i labili confini del postmoderno, siamo ora giustificati a tentare di elaborare, a partire da questo assunto, una sistemazione concettuale più accurata dei tratti distintivi del postmoderno. In tale tentativo, seguiremo la riflessione di un noto critico e teorico della postmodernità: Jean Baudrillard.
Nel contesto della sua valutazione del postmoderno come «estasi della comunicazione», Baudrillard riconosce come quest'epoca sia caratterizzata da una diffusione talmente capillare e diversificata della derealizzazione mediatica (da lui chiamata simulazione) da non permettere più di rinvenire alcuna distinzione tra essenza ed apparenza, alcun criterio stabile di verità che possa fondare pretese di oggettività nella realtà. L'iper-realtà ha definitivamente avuto la meglio sull'opacità e sul carattere umbratile della realtà, ha compiuto il delitto perfetto: «Il delitto risiede in ciò: si giunge alla perfezione della sua realizzazione totale, e questa completezza è una fine. Non c'è altra destinazione, né esiste "altro". Il delitto perfetto distrugge l'alterità: è il regno dello stesso, del medesimo, dell'identico»[3].
Per meglio definire questa contrapposizione tra realtà simulazione e opacità della realtà da recuperare dopo il delitto perfetto compiuto dai media, Baudrillard propone una distinzione tra erotismo dell'illusione e pornografia della simulazione.
L'ambito dell'erotico si qualifica come l'ambito della seduzione; la realtà e l'immagine si presentano come dis-velantesi, secondo il modello proprio dell'aletheia tematizzata da Heidegger. Dice Baudrillard: «La seduzione sottrae qualcosa all'ordine del visibile»[4], ovvero colloca la realtà in una dinamica di luce - oscurità, sottraendo l'immagine all'iperesposizione.
L'ambito del pornografico invece si caratterizza per «l'assoluta vicinanza della cosa vista (...) ipervisione in primo piano, dimensione senza distanza, promiscuità totale dello sguardo con ciò che vede - prostituzione dello sguardo (...) è osceno ciò che (...) viene offerto nudo, senza segreti, alla fagocitazione immediata»[5].
Risulta chiaro dunque come Baudrillard, tracciando questa distinzione tra i due ambiti, pensi alla differenza tra lo statuto della realtà precedente il postmoderno e tipico del postmoderno. In questo senso è possibile far reagire la riflessione del filosofo francese, della quale siamo debitori, con la nostra analisi. Il cinema splatter, in particolare Cannibal Holocaust, può essere inteso come esemplificazione del carattere pornografico della realtà contemporanea, nella quale tutto è visto perfettamente ed esposto oscenamente; l'elemento del macabro è fine a se stesso, ed il suo utilizzo svela esattamente le logiche tipiche del postmoderno. Baccanti è l'opera alla quale abbiamo fatto riferimento invece per mostrare come in essa agisca una dinamica propriamente erotica nel racconto della morte di Penteo, mostrando gli elementi utili a contrassegnare in questo modo il suo statuto.
Senza necessariamente seguire Baudrillard negli esiti della sua riflessione, che conducono ad un tentativo di restituire il carattere illusorio della realtà attraverso la fotografia analogica, e senza, d'altro canto, lanciarci in nostalgici tentativi di recupero di caratteri propri della grecità mai più riattualizzabili, preferiamo concludere proponendo una questione che potrebbe produrre fruttuose considerazioni. Non è possibile forse interpretare un film splatter, quale è Cannibal Holocaust, con il suo uso enormemente esagerato di particolari horror destabilizzanti e rivoltanti, come un film critico dello stesso statuto pornografico della realtà? Ovvero, non è possibile intenderlo come una ritorsione parodica su se stesso tramite un'esasperazione degli stilemi propri di tale genere cinematografico, che abbiamo visto essere rivelativi di tendenze ben più generali del contemporaneo? O dobbiamo forse avvicinarci di più ai giorni nostri per riscontrare tali logiche nella produzione cinematografica, chiamando in causa magari il cinema di Tarantino?




[1] Euripide, Baccanti, trad. it. di D. Susanetti, Carocci, Roma, 2010, p. 119.
[2] Ibidem.
[3] J. Baudrillard, Parole Chiave, trad. it. di S. De Amicis, Armando, Roma, 2002,  pp. 48-49.
[4] J. Baudrillard, Della seduzione, trad. it. di P. Lalli, SE, Milano, 1997, p. 44.
[5] J. Baudrillard, Oscenità della comunicazione, in Il sogno della merce, a cura di V. Codeluppi, Lupetti, Milano, 1987,  p. 53.

mercoledì 8 aprile 2015

Horror vacui e metonimia: la lettura fortunata



Data l'eccessiva intensità di un certo tono da predicatore presente nel mio articolo, uscito dal laboratorio della nostra bottega la scorsa volta, ho pensato per quest'uscita di non dedicarmi a ricostruzioni dal sapore malcelatamente etico (chi ne ha il diritto poi?), ma di concentrarmi su di un piccolo problema, che mi sembra però di grande interesse.
Mi scuseranno gli amanti dell'horror se per questo mio articolo quindi, derubricherò il tema suddetto al ruolo di accidente, per concentrarmi invece, attraverso esso, a che cosa voglia dire fare una lettura fortunata.
Mi spiego: capiterà a tutti di passare ore a scorrere le pagine non “cavando un ragno dal buco”, oppure affaticandosi nella certosina ricostruzione delle argomentazioni affrontate, permanendo però in uno stato di estraneità da esse, come se non si riuscisse a collocarle in un contesto organico di riferimenti, pur distinguendone alcuni contorni.
In certe occasioni, quanto chiamiamo appunto lettura fortunata, ci si trova invece come rapiti, sbalzati in avanti, come scorsi da una corrente per cui tutto quello che prima pareva nero, o mestamente incolore, si ravviva di molte tinte e inizia a parlarci.
Come sia possibile tutto ciò è quanto vorremmo tentare di indagare brevemente, premettendo il fatto che il seguente scritto vuole avere lo statuto di un tentativo e di un esercizio. Di conseguenza prego chiunque trovi falle o scorrettezza di rendermene partecipe.
Per esplicare questa dinamica, ovvero la differenza tra lettura semplicemente informativa e lettura fortunata, tratterò del racconto di Poe intitolato Berenice, a cui rimando il lettore1.
Da questo racconto si è scossi e rapiti assieme dalla violenza espressiva e dalla fine architettura che l'autore vi ha innervato.
Se Poe infatti si sofferma prima su considerazioni che paiono estrinseche e atte soltanto a creare un atmosfera barocca e oppiacea assieme, termina invece la sequenza finale con l'emersione ritmica e nervosa di una serie di indizi che rapidamente ci fanno pervenire al luogo d'orrore, dove troviamo il nostro appagamento di lettori.
Ma questo come accade? Credo si possa rispondere attraverso la riscoperta di quanto è espresso en passant nelle prime battute, quando Poe parla degli avi, della madre e della biblioteca, serie senza la quale non si chiarifica minimamente la coazione a ripetere che, in luogo dei denti, sposta il protagonista dalla posizione di fantasticatore a quella di carnefice.
La cosa fondamentale da tener presente è che esso presenta la propria mania come un “fantasticare infaticabile per lunghe ore con l'attenzione fissa su qualche frivolo fregio marginale, o su qualche anomalia tipografica di un libro...”2, continuando poi a descrivere le sue speculazioni come infruttuose, inconcludenti, mai piacevoli e frivole.
A ciò si lega il suo presentare le proprie attenzioni per Berenice come puramente intellettuali, mai guidate dal cuore, cosa che ritroveremo poi nel momento dell'orrore.
Infatti il nucleo delirante che accende la follia del protagonista è la sconvolgente vista dei bianchi e perfetti denti di Berenice, trauma che esprime modificando la frase di Madmoiselle Salle que tous ses pas étaient des sentiments con que toutes ses dents étaient des idées, ma questo cosa ci dice?
La soluzione non emerge immediatamente, in quanto siamo rapiti non solo dal movimento del racconto che velocemente ci avvicina al tragico epilogo, ma anche dall'emergere di una struttura che ci richiama alla primarietà assunta dal ruolo dei denti, struttura che però si rivela parziale all'esame.
Possiamo infatti subitamente istituire due serie: 1) Berenice giovane e piena di vita – Berenice malata, cadaverica, spettrale; 2) Berenice sepolta – Berenice ancora viva, ma mutilata.
Siamo immediatamente proiettati in una contraddizione per cui i denti arrivano ad essere rappresentanti da un lato di pienezza e vita dinnanzi al malato, e dall'altro simboli di morte, di mutilazione, ma che contemporaneamente mostrano lo spazio di un corpo vivo, sfigurato, ma vivo.
I denti si mostrano quindi quell'elemento circolante e differenziale che innerva l'intera struttura nella sua logica intersoggettiva, la quale coinvolge lo stesso protagonista.
E' infatti la posizione assunta rispetto ai denti che dispone il luogo occupato da ogni personaggio, ma qui ci troviamo dinnanzi ad una impasse: che ruolo ha il protagonista? Prima monomaniaco e poi carnefice, ma come spiegarlo? Ci manca evidentemente una componente seriale, segnalata dalla frase delirante sopra citata: “che tutti i suoi denti erano idee”, a cui Poe fa seguire il commento che ci porta presso quanto cerchiamo: “Sentivo che soltanto il loro possesso [dei denti] poteva ridonarmi la pace, restituirmi la ragione”3.
I denti non hanno alcuna attinenza con la bellezza di Berenice e l'eros (il protagonista ci informa anche della suo inesistente interesse per quest'ambito), ma sono quel significante che per lui può assicurare una presa definitiva e completa sul reale: possono calmare l'inquietudine della sua coscienza attenta.
Ci dobbiamo però chiedere ora da dove arrivi questa necessità per il protagonista, e la troviamo proprio nell'incipit del racconto dove parla della sua stirpe: una stirpe di visionari e fantasticatori, raccoglitori di oscure saggezza ed erudizione. Una stirpe dalla quale è come se egli rimane escluso, abbandonato, tagliato fuori dal punto di vista della parentela diretta (“quivi morì mia madre. Qui io nacqui”4), ma a cui resta legato grazie alla cugina Berenice e la biblioteca, dove il protagonista pronuncia le parole appena citate e dove rinchiude la propria vita.
Che la sua inquietudine sia il tentativo ossessivo di pervenire ad una pienezza incontraddittoria che lo ricollochi in seno alla sua stirpe, mi sembra un'ipotesi sostenibile e ne seguirebbe che quindi le fantasticherie che rappresentano “non l'elemento materiale della mia vita quotidiana, ma veramente e propriamente la mia sola unica vera vita”5, dice il protagonista, siano la ripetizione coatta dello stesso distacco traumatico che ha inaugurato la sua coscienza.
La reiterazione del distacco è lo stesso tentativo contraddittorio di richiuderlo.
Si capisce quindi come questa pretesa conoscenza di una totalità conchiusa, che possiamo ora chiamare idee, rappresenti contemporaneamente sia la vita piena e compiuta per la finitezza, la degenza del protagonista, sia la rottura della struttura stessa della sua coscienza in una fissità mortifera.
Due serie quindi: 1') Stirpe e pienezza di conoscenza – protagonista degente e angosciato; 2') possesso preteso di una conoscenza conchiusa, identità con la stirpe – psicosi, totale perdita del contatto con la realtà e con sé stesso6.
Si vede come i denti-idee7 rappresentino quindi quell'elemento metonimico che nei suoi movimenti rende possibile la mediazione tra le serie e arrivi quindi a svelare, almeno a questo livello, la struttura immanente al racconto.
I denti di Berenice sono lo spettro della sua bellezza perduta e perciò idealizzata. Nel protagonista tale dinamica prende corpo nelle idee, come spettri di una conoscenza particolare che possa spiegare tutto, un significante piegato ad un significato ulteriore e unitario, il quale, se perseguito, non può che avere l'effetto di un'astrazione, una cesura estraniante, una distruzione che lascia vedere il corpo in frammenti8.
Quest'ultimo è infatti quella traumatica e incessante incidenza di un non legislabile all'interno di un insieme legale, che costantemente forza quest'ultimo ad elaborarsi, ma che qualora fosse affrontato in maniera unilaterale e con la finalità di impedire questo stesso movimento incessante, il ripresentarsi cioè del traumatico, non potrebbe produrre altro che la distruzione del soggetto e del discorso, della struttura9.
Possiamo ora cercare di trarre una conclusione a riguardo di quanto ci interrogava a riguardo della lettura: cos'è infatti che ci permette di fare una lettura fortunata? E che conseguenze -purtroppo soltanto immediate dato il luogo- possiamo trarne?
Una lettura si può dire fortunata quando si è catturati da un elemento, che prima definivamo differenziale, e che ci pone all'interno di un incontro che non lascia più nulla come prima. Un elemento che ci si mostra per uno scarto rispetto ad una serie, come qualcosa di frivolo, marginale, magari come un'anomalia. Quest'incontro è già un movimento10, dove una serie, entrando in relazione con una seconda serie, sviluppa una significazione differente dalla precedente e che non era possibile al di fuori di quest'incontro. Un movimento dove siamo spinti a capirci qualcosa, spinta che però, ora ci si presenta come una necessità ineludibile: nel vuoto del sapere precedente siamo costretti a trovare il nuovo11. Ed è seguendo questa corrente che ci si trova ad avere in mano qualcosa di effettivamente nuovo e imprevisto.
Ad interessarci qui è la messa in luce del registro in cui siamo inseriti che è quello del significante, ovvero di quanto rappresenta un soggetto per un altro significante12, di quanto ha la proprietà di essere traducibile. Un significante non è un contenitore di significato, ma il termine di una relazione dove soltanto la messa in forma complessiva di quest'ultima, può dar luogo alla significazione dei termini della relazione, i quali, a questo punto, significano qualcosa per l'altro e di per sé sono muti. Con ciò emerge l'insostenibilità della primarietà di qualsiasi identità analitica13, ma questo cosa implica per il nostro discorso se non il fatto che quanto distrugge il nostro protagonista è la condizione stessa per cui noi possiamo fare una lettura fortunata?
Quanto il Poetagonista vuol sopprimere è l'incidenza di un termine esterno ad una serie all'interno di quella stessa serie rispetto a cui è esterno, ovvero la metonimia.
Struttura che rappresenta il legame tra l'irriducibilità del significante ad un significato unitario, ovvero quanto si palesa nell'angoscia, nella perdita di un oggetto che si possedeva in maniera pretesa compiuta e il potere vivificante il senso che questo movimento produce su di un testo14: il vuoto è condizione di possibilità del movimento genetico di cui ogni tanto si fa esperienza nel linguaggio.
E proprio la quantità di rifermenti dati in questo nostro breve testo, non volevano essere esemplificazioni (individui sussumibili ad una differenza specifica) o ritrovamento di analogie (identità di rapporti che rimangono delle identità stabili fuori dal loro rapporto), ma piuttosto il tentativo di procedere seguendo le tracce di una possibile lettura fortunata (chissà se ci siamo riusciti?) per noi e per chi legge.
Questo però pone il problema, che non possiamo affrontare ora, su quale sia la legge che queste serie producono, quale sia la distinzione tra discorsi (filosofico, letterario, psicoanalitico, cinematografico, ecc...) che si rende necessario esplicare per non cadere nell'indistinzione.
Come disporsi rispetto allo scarto tra le nostre serie? Ma su questo problema della metafora, rimandiamo oltre questo brave esercizio.
1Non per pigrizia evito di dilungarmi in un riassunto, ma per questioni di spazio. Per altro il racconto non consta nemmeno di dieci facciate, il che rende la lettura oltre che molto piacevole e stimolante per la maestria di Poe, anche molto veloce.
2E. A. Poe, Racconti, a cura di Giorgio Manganelli, ed. BUR, Milano 1999, pp. 281-282.
3Ivi, p. 286.
4Ivi, p. 279.
5Ivi, p. 280.
6La follia irrompe violenta quanto il protagonista ritiene morta Berenice: altro distacco dalla parentela e altro tentativo (ora reale come la perdita -pretesa- della parente) di prendere per sé un significante totalizzante: non più fantasticheria, ma violenza. Il distacco diventa vera e propria mutilazione.
7O, scimmiottando Carroll, si potrebbe dire ideenti. Par infatti essere proprio questo movimento incessante, quanto muove il procedere di Carroll, il quale lo esplicita ad esempio dei portmanteau (L. Carroll, Through the Looking Glass, Collins classics, London 2010, p. 85), ovvero in quei neologismi dove sono condensati termini che così facendo intersecano serie differenti, dando luogo a creazioni linguistiche e concettuali complesse.
8Non solo quello del protagonista nel suo stato psicotico, ma letteralmente anche il corpo sfigurato di Berenice.
9La più alta rappresentazione di questa dinamica è ovviamente la tragedia classica: un es. per tutti è rappresentato dalle Baccanti euripidee di cui tratta questo mese il bottegaio De Vecchi, oppure dalla Medea dello stesso tragediografo, dove il tentativo di Giasone di piegare alle necessità dell'eugeneia, tutta maschile, la logica femminile del legame matrimoniale, non può che porre ad effetto una totale distruzione della stirpe e l'emergere della thumos femminile come incomprimibile forza ferina, non più umana (Medea infatti, nell'ultimo atto compare sulla mechanè, il luogo del dio nella messa in scena, e narrativamente, se ne va sul carro del suo antenato, il Sole). Fondamentale è mettere in luce che proprio la messa in scena di queste unilateralità, era la maniera greca per elaborarle senza farsene travolgere.
10Non siamo lontani dal movimento dell'Erfahrung hegeliana, dove da un rovesciamento si irradiano una serie di redistribuzioni semantiche che mutando figura o momento, modificano lo statuto della coscienza per la quale quelle figure e quei momenti erano presenti.
11Possiamo a buon diritto definire questo movimento come genetico e trascendentale, in quanto pone a tema costantemente il nostro modo di riferirci all'oggetto, in modo che tale performazione del sapere sia la produzione di risposte adeguate al problema che di volta in volta ci si presenta. Risposte che non possono esser presupposte, ma van prodotte (il trovare di cui parlavamo appena sopra) nel medesimo esercizio della loro deduzione. Sul problema del rapporto tra trovare e produrre, come movimento genetico, siamo però costretti a rimandare ad una futura interrogazione.
12J. Lacan, Il seminaio, libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, p.193.
13Più rigorosamente si potrebbe dire che se indaghiamo le condizioni di possibilità di A, ovvero che A=A, dovremmo dire che A dev'essere posto, ovvero A va tradotto “se A allora A“, o ancora “A dev'essere posto, rappresentato ad A”. Se poniamo “se A allora A”=X, dovremmo dire che condizione di possibilità di A=A è X=X: l'identità che si scopre è solo quella di un movimento di corrispondenze, un autorifermento semanticamente vuoto i cui prodotti sono le significazioni, le identificazioni che cerchiamo e che quindi si dimostrano come derivate e non principi; si potrebbe altrimenti dire che se l'identità di cui parliamo è il ritrovare A rappresentato per A, allora potremmo anche tradurre A=A come prodotto del movimento A X A e il risultato sarebbe lo stesso. Con ciò abbiamo mostrato che per pensare un identità (un nucleo semantico determinato), questa deve risultare da una relazione di corrispondenza tra due termini di per sè semanticamente vuoti ( )= ( ), come vuoto è il nome per questo movimento, X.
14Quanto par esprimere meglio di altro il legame tra angoscia e struttura significante è la scena di The Birds di A. Hitchcock dove i due grandi conflitti del film si legano e si vivificano l'un l'altro ovvero la scena dove Lydia, la madre di Mitch, scopre il cadavere dell'agricoltore ucciso dagli uccelli. Qui Lydia, stravolta, non riesce a gridare: diventa afona. E' lo stesso orrore che ammutolisce l'ornitologa che, dopo l'attacco al paese, trova il suo sapere etologico completamente distrutto, annullato. Non c'è modo di esprimere questo vuoto travolgente, derivato dalla modificazione delle relazioni che innervavano il precedente sapere, se non con l'afonia. Così Lydia, condensa in sè l'angoscia dovuta al pericolo ornitologico, all'angoscia che essa rappresenta nell'ambito familiare, dove gelosamente cerca di allontanare ogni pretendente dal figlio, divenuto sostituto del marito deceduto, tentando di preservare quel poco di ordine che la sostiene. In luogo dell'angoscia, come componente della struttura dinamica della significazione, il film quindi acquista significazione sia da un punto di vista drammatico che strutturale.