Nero, superbo, fulmineo: così appare
Malacoda, diavolo della V bolgia, Inferno XXI, sorgendo alle spalle
di Dante da un abisso di pece. È lo sgomento nel suo cuore,
sensibilmente scosso e toccato dalla fisicità di una bestia
vibrante, letale, apparentemente ineludibile – diabolica!, nel
senso più efferato del termine.
Il realismo della scena (Dante ne è
riconosciuto maestro) è vivido e tremendo nella malignità che viene
descritta: si ha la sensazione impotente di trovarsi come preda
succulenta nella tana dei lupi; tanto più che Malacoda non è solo,
ma l'accompagnano dieci sottoposti, altrettanto rabbiosi e furenti:
unico passatempo per l'eternità tutta è tormentare, infilzare,
scuoiare i dannati barattieri, immersi (che sadismo ridondante!) pure
nella pece bollente. È ben notare che son diavoli diversi da altri
già incontrati specialmente nei primi canti: quelli, come Cerbero,
Caronte, Minosse, son demoni della tradizione classica, di ferree e
autoritarie movenze, placidi quasi da sembrare annoiati funzionari
della burocrazia oltremondana; questi sono invece demoni cristiani,
angeli caduti e rinneganti il loro antico Signore. Entrambi, certo,
condividono la medesima crudeltà inflessibile e un'uguale dedizione
al male, ma questi ultimi (chiamati i “Malebranche”) conservano
tratti interessanti del loro passato angelico che i primi non hanno,
cioè una divina intelligenza e il gusto disponibile e interessato
per il dialogo con l'uomo. Son qui, in questa matrice religiosa, che
troviamo le radici della figura diabolica come topos letterario:
nell'essere controparte maligna di un'eccellenza benigna, il suo
negativo fotografico brillante, svettante verso il basso,
invidiabile.
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Illustrazione di Lorenzo Mattotti per Inferno XXII (Nuages, 1999) |
Se non fosse che, continuando la lettura del canto, questa diabolica fierezza è declinata in forme forse degradanti, ma nelle quali sedimenta il sale della loro caratterizzazione – forme umane, tipizzate, comunemente viziose, che stridono clamorosamente (tanto da strappare un sorriso) con tanta maligna e definita qualificazione: emergono sostanzialmente, variamente combinati al terrificante, i caratteri del grottesco, del comico, del buffonesco.
Così se, rivolgendosi ad un
disgraziato immerso nella pece in laconici (e urlati) versi
[…] “Qui non ha
luogo il Santo Volto:
qui si nuota altrimenti
che nel Serchio!”
si cicatrizza nel lettore una lucida
condanna che dispiega la rovina eterna, subito dopo il tono degenera:
li si vede esprimersi in insulti, invettive e subdole ironie, con
buona pace dell'epica teatralità dell'attimo prima. Ma come?, c'è
da chiedersi; e il buffonesco si fa via via più degradante e infimo,
tanto che Malacoda si congeda dalla truppa (che si rivela
disordinata, chiassosa, indisciplinata: salta fuori una gran cagnara
molesta e triviale) con una sonora scorreggia. Cristo! È Rabelais
che entra nell'Inferno dantesco, o, per esigenze cronologiche, Dante
che siede ospite della corte di Gargantua.
E tutto il seguente avvicendarsi della
brigata demoniaca è un susseguirsi di sproloqui grossolani e
avventatezze da scemi, addirittura fino alla zuffa, che si conclude
con due diavoli che finiscono a mollo nella pece bollente rivelando
(è il culmine di questo parossismo) una pelle assai sensibile alle
ustioni! Tanta è l'ira da cui sono dominati e trascinati in
ridicolo, che quasi suscitano compassione per la loro goffa
grettezza. Si mantengono maestosi, esemplari di una fisicità
atletica e di una volontà ineludibile verso la depravazione – vere
macchine di crudeltà – ma pure non sono in grado di esimersi dal
cadere così prosaicamente nel grossolano.
E non potrebbe essere altrimenti: il
male si esplica qui nelle forme del comico come se non avesse altre
vie di sfogo, come necessario prezzo da pagare per coniugare insieme
la discendenza angelica e la tensione al male in un'unica figura.
L'umanizzazione e la degradazione a cose terrene: questi gli effetti
della contraddizione (forse non rigorosamente logica, ma
efficacissima senza dubbio a livello narrativo), questa la forza
d'espressione micidiale. Il fenomeno si può parimenti notare in ogni
forma del diabolico, come passaggio obbligato verso elementi più
umani che eterei, più triviali e multiformi che angelici e assoluti.
Il Medioevo è stato fucina incessante di grottesche rappresentazioni
del reale, e nei toni del diabolico ha usato colori particolarmente
vivi: ogni astrattezza maligna è sempre ricondotta alla sfera
animale, terrena, scatologica perfino, non per sminuirne la portata,
ma perché anzi proprio lì risiede la sua licenza di inferire
sull'uomo e sulle sue miserie. Tanto più la comicità, quando
indossata dal male nelle rappresentazioni che Dante ci offre, risulta
in grado di ferire, sfuggire, di restare imprevedibile all'uomo se
questo non vi si adatta e non vi declina similmente le proprie
risposte: il tono arguto, la battuta sagace, il motto di spirito. Non
a caso i canti XXI-XXII sono tutti all'insegna della burla, verso cui
si piegano il lessico soprattutto e le scene. Dante, quasi con
codardia, si nasconde assai poco dignitosamente dietro una roccia, ed
è Virgilio stesso, con una certa malizia, a chiederglielo. Come se
prendesse parte pure lui alle burle dei Malebranche. Si tratta di
forme atipiche del confronto tra l'uomo e la bestia (niente latrati
affannosi, niente membra in tensione reciproca e niente zanne
brutalmente nella carne), attraverso le quali il male può rendersi
concretamente – e verosimilmente – insidioso; si è visto come,
dopotutto, esse siano anche le uniche possibili, pena la perdita di
minaccia e di efficacia.
Certo, sorvolando su queste
considerazioni posteriori e sfocando dal tema di una comicità
necessaria al male, c'è da
dire che quanto è messo in opera da Dante non è affatto originale e
appartiene ad una rigogliosa tradizione letteraria medievale, detta
“carnascialesca”, i cui intenti sono volutamente dissacratori,
buffoneschi, satirici. E, qui, la volontà prima di Dante è aderente
a questo filone: una semplice ironia gagliarda su alcune mostruosità
(i diavoli infernali in questo caso) che il Medioevo conosceva così
bene da abusarne profanamente. Senza dubbio c'è da riconoscergli il
merito di aver immortalato in questi due canti un esempio icastico
del genere carnascialesco, fin troppo trascurato e relegato alla
considerazione di mero intrattenimento popolare, sia per i temi
apparentemente frivoli, sia perché la sua tradizione è quasi sempre
in massima parte orale. Poco importa, insomma, se la farina non è
tutta del suo sacco, o se voleva solamente divertire i suoi lettori
(ci mancherebbe!). Nulla da sindacargli dunque, specie perché al Dante scrittore e poeta, a dire il vero, si può rimproverare gran poco.