venerdì 16 ottobre 2015

Funes oracolare

Lo sguardo di Ireneo Funes incide la scorza delle cose con chirurgica precisione, le incendia, ne domina la vampa e le conclude in cenere nel breve spazio tra due battiti di ciglia.
Borges, nel suo racconto1, parla di questo diciannovenne paralizzato e costretto a letto (personaggio fittizio – sia chiaro per chi non ha la possibilità di leggerlo o non conosce l'autore argentino, poiché è quasi scontato per coloro già familiari con la sua fantasia – ma non del tutto irreale2) in grado di cogliere con la vista l'intera sfera dettagliata e multiforme di ciò che è osservabile. Vorrei in questo ciclo parlare della sua natura formidabile, spero senza annoiare e con il proposito di osservare brevemente i motivi del fascino che Borges suscita in questo racconto.

Noi, in un'occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d'una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell'alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d'un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho.”

Non è lo sguardo strabiliante l'unica qualità che Borges gli concede dunque, poiché lo dota anche di una memoria infallibilmente espansa – e così quanto infinitamente accurata è la lama visiva che seziona il reale attraverso i suoi occhi, tanto infinitamente lucido è il sistema dei ricordi di Funes, nei quali sono registrati anche le più sciocche inezie che abbiano indugiato brevemente sotto il suo sguardo. Qualitativamente, Funes sogna come noi vegliamo, sottolinea Borges, tendendoci una mano nell'immaginare cosa una lucida veglia significhi per lui.



Ora, è interessante che vista e memoria siano in lui intrecciati tanto fittamente: Funes ricorda tutto ciò che vede, letteralmente, e rivede tutto ciò che ricorda, tanto che le due peculiarità costituiscono in lui un unico senso, onnipresente nel tempo e nello spazio dei suoi pensieri. È un senso che non può fallire, e cui Funes non può sottrarsi se non forzosamente: passa il suo tempo al buio (un'intera giornata di luce assommerebbe in lui dettagli e memorie incommensurabilmente vasti), e quando cerca di dormire è costretto a concentrare il suo pensiero su cose che non conosce – angoli bui, luoghi che non ha ancora visto – perché “dormire è distrarsi dal mondo” e, a lui, risulta d'una fatica formidabile, tanto il suo è ricco e vasto. Non manca la vertigine nel calcolare l'esistenza di Funes: ogni visione si fa indissolubile, marcata, sovrapponibile a ciascun'altra nella sterminata landa della sua memoria, aumentando così a dismisura il centro di gravità attorno ai suoi occhi, poiché quel che vi passa davanti rimane eternato, privato della sua dimensione caduca e celebrato nel ricordo come mai altro uomo ha potuto celebrare il proprio dio. Borges costituisce un individuo che non è divino, ma che costituisce la causa prima della divinità, come se su di lui s'assommassero le vicende dell'uomo, spoglie e terrene, un attimo prima di esser guardate dai suoi occhi e venire elette al rango di fati incorruttibili – e pure parliamo di un infermo che vive nella penombra la quasi totalità del suo tempo, considerazione che, unita alla capacità teurgica di dar natura eterna alle cose, potrebbe far di Funes un perfetto esempio di oracolo. Esempio anomalo tuttavia, perché l'eternità che i suoi occhi dispongono ordinatamente nel circuito mnemonico non riguarda alcuna veggenza futura, bensì esclusivamente passata.
Se ne conclude che tanta meraviglia sensoriale rimane tristemente puro gioco per Funes, poiché su di lui si accavallano, certo, le responsabilità dell'oracolo, ma senza che queste divengano fruibili in quanto oracolari – lo si potrebbe chiamare un oracolo mozzato, incompleto, fondamentalmente aberrante. Così le uniche sue occupazioni rimangono ludibri personali – lo studio delle lingue, la creazione di bizzarri sistemi di numerazione, l'incessante fantasticare – che fan di tanta gravità visiva un pozzo indicibilmente fondo, più che una torre illuminata (e luminosa), un prodigio di sola potenza non realizzata, costretto a sopportare il peso di una memoria e dunque di una vita divina senza poter compiere alcun atto in tale natura. Lo si potrebbe considerare un Prometeo costretto alle catene del proprio sguardo, se non fossero proprio quelle catene a costituire il motivo della sua divinità. Nessuna redenzione attende Funes, poiché egli non ha colpe da espiare, né ragione di essere punito, ma solamente una morte da aspettare – singolo apice denso e umano, di contrasto vertiginoso ad una vita tanto disumanamente vasta.

1Jorge Luis Borges, Finzioni, Torino, Einaudi, 2014.
Le citazioni seguenti sono tratte da questa edizione. Il racconto lo potete trovare qui: http://lab4.psico.unimib.it/nettuno/forum/free_download/funes__o_della_memoria.pdf
2http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/12_settembre_24/ipertimesia-ragazzo-ricordi_eef25caa-0650-11e2-a9b9-923643284af5.shtml

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