lunedì 29 dicembre 2014

Quando Dante se la ride

Nero, superbo, fulmineo: così appare Malacoda, diavolo della V bolgia, Inferno XXI, sorgendo alle spalle di Dante da un abisso di pece. È lo sgomento nel suo cuore, sensibilmente scosso e toccato dalla fisicità di una bestia vibrante, letale, apparentemente ineludibile – diabolica!, nel senso più efferato del termine.
Il realismo della scena (Dante ne è riconosciuto maestro) è vivido e tremendo nella malignità che viene descritta: si ha la sensazione impotente di trovarsi come preda succulenta nella tana dei lupi; tanto più che Malacoda non è solo, ma l'accompagnano dieci sottoposti, altrettanto rabbiosi e furenti: unico passatempo per l'eternità tutta è tormentare, infilzare, scuoiare i dannati barattieri, immersi (che sadismo ridondante!) pure nella pece bollente. È ben notare che son diavoli diversi da altri già incontrati specialmente nei primi canti: quelli, come Cerbero, Caronte, Minosse, son demoni della tradizione classica, di ferree e autoritarie movenze, placidi quasi da sembrare annoiati funzionari della burocrazia oltremondana; questi sono invece demoni cristiani, angeli caduti e rinneganti il loro antico Signore. Entrambi, certo, condividono la medesima crudeltà inflessibile e un'uguale dedizione al male, ma questi ultimi (chiamati i “Malebranche”) conservano tratti interessanti del loro passato angelico che i primi non hanno, cioè una divina intelligenza e il gusto disponibile e interessato per il dialogo con l'uomo. Son qui, in questa matrice religiosa, che troviamo le radici della figura diabolica come topos letterario: nell'essere controparte maligna di un'eccellenza benigna, il suo negativo fotografico brillante, svettante verso il basso, invidiabile.

Illustrazione di Lorenzo Mattotti per Inferno XXII (Nuages, 1999)

Se non fosse che, continuando la lettura del canto, questa diabolica fierezza è declinata in forme forse degradanti, ma nelle quali sedimenta il sale della loro caratterizzazione – forme umane, tipizzate, comunemente viziose, che stridono clamorosamente (tanto da strappare un sorriso) con tanta maligna e definita qualificazione: emergono sostanzialmente, variamente combinati al terrificante, i caratteri del grottesco, del comico, del buffonesco.
Così se, rivolgendosi ad un disgraziato immerso nella pece in laconici (e urlati) versi

[…] “Qui non ha luogo il Santo Volto:
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”

si cicatrizza nel lettore una lucida condanna che dispiega la rovina eterna, subito dopo il tono degenera: li si vede esprimersi in insulti, invettive e subdole ironie, con buona pace dell'epica teatralità dell'attimo prima. Ma come?, c'è da chiedersi; e il buffonesco si fa via via più degradante e infimo, tanto che Malacoda si congeda dalla truppa (che si rivela disordinata, chiassosa, indisciplinata: salta fuori una gran cagnara molesta e triviale) con una sonora scorreggia. Cristo! È Rabelais che entra nell'Inferno dantesco, o, per esigenze cronologiche, Dante che siede ospite della corte di Gargantua.
E tutto il seguente avvicendarsi della brigata demoniaca è un susseguirsi di sproloqui grossolani e avventatezze da scemi, addirittura fino alla zuffa, che si conclude con due diavoli che finiscono a mollo nella pece bollente rivelando (è il culmine di questo parossismo) una pelle assai sensibile alle ustioni! Tanta è l'ira da cui sono dominati e trascinati in ridicolo, che quasi suscitano compassione per la loro goffa grettezza. Si mantengono maestosi, esemplari di una fisicità atletica e di una volontà ineludibile verso la depravazione – vere macchine di crudeltà – ma pure non sono in grado di esimersi dal cadere così prosaicamente nel grossolano.
E non potrebbe essere altrimenti: il male si esplica qui nelle forme del comico come se non avesse altre vie di sfogo, come necessario prezzo da pagare per coniugare insieme la discendenza angelica e la tensione al male in un'unica figura. L'umanizzazione e la degradazione a cose terrene: questi gli effetti della contraddizione (forse non rigorosamente logica, ma efficacissima senza dubbio a livello narrativo), questa la forza d'espressione micidiale. Il fenomeno si può parimenti notare in ogni forma del diabolico, come passaggio obbligato verso elementi più umani che eterei, più triviali e multiformi che angelici e assoluti. Il Medioevo è stato fucina incessante di grottesche rappresentazioni del reale, e nei toni del diabolico ha usato colori particolarmente vivi: ogni astrattezza maligna è sempre ricondotta alla sfera animale, terrena, scatologica perfino, non per sminuirne la portata, ma perché anzi proprio lì risiede la sua licenza di inferire sull'uomo e sulle sue miserie. Tanto più la comicità, quando indossata dal male nelle rappresentazioni che Dante ci offre, risulta in grado di ferire, sfuggire, di restare imprevedibile all'uomo se questo non vi si adatta e non vi declina similmente le proprie risposte: il tono arguto, la battuta sagace, il motto di spirito. Non a caso i canti XXI-XXII sono tutti all'insegna della burla, verso cui si piegano il lessico soprattutto e le scene. Dante, quasi con codardia, si nasconde assai poco dignitosamente dietro una roccia, ed è Virgilio stesso, con una certa malizia, a chiederglielo. Come se prendesse parte pure lui alle burle dei Malebranche. Si tratta di forme atipiche del confronto tra l'uomo e la bestia (niente latrati affannosi, niente membra in tensione reciproca e niente zanne brutalmente nella carne), attraverso le quali il male può rendersi concretamente – e verosimilmente – insidioso; si è visto come, dopotutto, esse siano anche le uniche possibili, pena la perdita di minaccia e di efficacia.


Certo, sorvolando su queste considerazioni posteriori e sfocando dal tema di una comicità necessaria al male, c'è da dire che quanto è messo in opera da Dante non è affatto originale e appartiene ad una rigogliosa tradizione letteraria medievale, detta “carnascialesca”, i cui intenti sono volutamente dissacratori, buffoneschi, satirici. E, qui, la volontà prima di Dante è aderente a questo filone: una semplice ironia gagliarda su alcune mostruosità (i diavoli infernali in questo caso) che il Medioevo conosceva così bene da abusarne profanamente. Senza dubbio c'è da riconoscergli il merito di aver immortalato in questi due canti un esempio icastico del genere carnascialesco, fin troppo trascurato e relegato alla considerazione di mero intrattenimento popolare, sia per i temi apparentemente frivoli, sia perché la sua tradizione è quasi sempre in massima parte orale. Poco importa, insomma, se la farina non è tutta del suo sacco, o se voleva solamente divertire i suoi lettori (ci mancherebbe!). Nulla da sindacargli dunque, specie perché al Dante scrittore e poeta, a dire il vero, si può rimproverare gran poco.

mercoledì 24 dicembre 2014

...Se il diavolo non ci mette la coda




Che cosa leghi la figura del diavolo alla burla è un tema quanto mai complesso, a cui non ci sentiamo minimamente in grado di corrispondere con un esame che possa vantare caratteri di compiutezza anche minimi, sarà piuttosto nostro fine quello di esplicitare alcune linee argomentative che consideriamo d'interesse.


La figura del demonio infatti par esser denotata da un'ambivalenza fondamentale per cui può allo stesso tempo rappresentare quell'entità malefica angosciante, paralizzante, dinnanzi alla quale ad esempio Dante dice: “io non mori' e non rimasi vivo”1, oppure la figura legata allo scherno, alla registrazione di un'inadeguatezza, sia questa propria del diavolo stesso o di chi il diavolo canzona.
Volendo approfondire questa articolazione ci viene in aiuto il Faust goethiano, dove la figura di Mefistofele ricopre propriamente questo secondo tipo di diabolicità, e lo fa consapevolmente in quanto dice:

Mefistofele: […] Già, la cultura che raffina il mondo, ormai s'è attaccata anche al diavolo. E il fantasma nordico è stato tolto dalla circolazione. Corna, coda, artigli: chi li vede più? E quanto al piede, di cui non posso fare a meno e che tra la gente mi farebbe scomparire, da parecchi anni rimedio, portando, come certi giovanotti, polpacci finti.2

Si ha nel Faust l'emergere di una figura di diavolo all'altezza del costume moderno, un “Signor Barone”3 che si vergogna della sua figura medievale di demone sconvolgente e macabro, rilegata ormai al mondo della superstizione, e che si palesa come un uomo, un “cavaliere come tutti gli altri”4.
Che tal figura presenti una forte carica ironica lo si coglie proprio dall'accenno ai gambali che il diavolo è costretto ad indossare per non palesare il suo zoccolo cavallino, di cui non può disfarsi.
Ne risulta ad un primo livello una vicinanza tra il diavolo e l'umano, proprio in luogo della comune imperfezione, ci si può però chiedere che fine faccia l'immagine agghiacciante del demonio, ma prima di questo dovremo dire qualcos'altro.
Guardando più da vicino il nome, scopriamo che “diavolo” deriva dal greco diaballein, che alla lettera significa “gettare attraverso”. Il diavolo è quindi legato a qualcosa che fondamentalmente è andato storto, ad un caso, ad uno squilibrio che si è prodotto e all'interno del quale si trova anche l'uomo.
A ciò è quindi legata la finalità intima di Mefistofele, che è assolutamente nichilistica: esso infatti continua a sottolineare la fondamentale insensatezza della schisi che si è aperta in luogo dell'uomo e della sua Ragione ed agisce proprio per affermare l'inanità di ogni scopo determinato. Allo stesso tempo è però consapevole della sua sottomissione ad una potenza superiore, ad esso opposta, ma che non scalfisce la sua natura oppositiva:

Mef: Sono una parte di quella forza che vuole sempre il Male ed opera sempre il Bene
Faust: Che vorresti dire con questo tuo enigma?
Mef: sono lo spirito che nega sempre. E con ragione: perchè tutto quello che nasce è degno di finire in perdizione. E però meglio sarebbe che non nascesse nulla.5

Emerge quindi il fatto che il diavolo è quanto di più connaturato all'uomo, esso è anzi, nel disegno di Dio stesso, necessario per “stimolare”6 l'uomo, il quale altrimenti fermerebbe la sua attività in una pace immota, ovvero un autismo di morte.
Possiamo quindi già vedere una triangolazione di concetti che organizza una logica economica:
dato una iniziale differenza (schisi), vi è il disporsi di un'opposizione, dove ognuna delle due forze in campo (I-la negazione incessante di Mefistofele, la tendenza ad un regime di muta indistinzione e II- l'attività di rilancio, di legame, di relazione ad altro, di domanda di cui si fa portatore Faust) tende a permanere ad un livello minimale di sollecitazione ovvero a seguire indisturbatamente la sua tendenza.
Dato che siamo però in una struttura oppositiva, le due forze sono messe in forma dall'opposizione stessa, con la conseguenza che la loro impossibilità allo zero è la marca stessa della differenza.
Se infatti ogni forza vuol permanere indisturbatamente presso un livello zero di sollecitazione, ma il campo che le informa le dispone come opposte, ogni conservazione del proprio livello da parte di una forza sarà la perturbazione dell'altra e viceversa.
Si avrà quindi una loro conformazione dinamica, la quale tende a produrre equilibri compromissori in relazione all'incessante ritorno della loro divergenza.
Con un salto mortale ci siamo quindi portati in un campo concettuale assimilabile a quello freudiano, il che ci permetterà, con il rimando al testo sul Witz, di specificare meglio la relazione tra il diavolo e la burla.
Mefistofele infatti è costantemente impegnato nel registro del motto di spirito e dell'umorismo, dove queste due sono entrambe tecniche espressive che, pur diversamente, palesano la comicità ovvero l'inadeguatezza di un'identità. Detto altrimenti essi descrivono l'uscita e la contemporanea messa a tema, di quella stessa organizzazione di forme che toccano.
Il Witz e l'umorismo permettono quindi di esprimere potenze, aggirando le individuazioni che vi si oppongono, mantenendo però controllato il livello di divergenza tra le forze (dispiacere), di modo da non portare al punto di rottura tale fragile equilibrio.
Si capisce subito come questo implichi un interminabile lavoro di corrispondenza, da parte di Faust, a questa dinamica di nomadismo a cui Mefistofele lo costringe: quest'ultimo infatti non fa altro che mostrare l'insufficienza, la stupidità e l'inanità di ogni meta faustiana, ma allo steso tempo, così facendo, produce continuamente spazio al desiderio di Faust, che altrimenti imploderebbe.
Questa pratica di negazione insistente e canzonatoria, che tanto ci fa amare Mefistofele e la sua arguzia, relativizza ogni feticcio, abbatte le resistenze di Faust, ma contemporaneamente questa stessa irrequietezza, così sovversiva, non può che presentare anche l'altra sua faccia: quella della crudeltà, dell'aggressività.
Forse in questo senso il vecchio demone nordico si è conservato. In questa figura che par testimoniare del complesso d'evirazione, per cui il problema della propria determinatezza lo si gestisce anche alla luce di questo “qualcosa” che è da sempre ed irrimediabilmente messo di traverso e che Lacan chiamerebbe il Reale, troviamo la figura angosciante che parla dell'impotenza di cui facciamo esperienza, ovvero del fatto che l'uomo non è Dio e che il tentativo di occupare quel posto non può che avere risultati catastrofici.
Il reale è quindi quell'urto che insistentemente inerisce ad ogni organizzazione concettuale, testimoniando della necessità di non assolutizzare la logica che la organizza. Un urto che, a quella logica determinata, non può che presentarsi come corruttore, come caos, ma che è condizione di pensabilità della dinamica problematica di cui l'uomo partecipa e che solo dogmaticamente e con un'ipocrisia consolatoria si può iscrivere in una “Provvidenza” umana troppo umana7.
Domando scusa per la verbosità, ma tornando alle nostre due figure del diavolo possiamo concludere che esse si danno come espressioni coimplicantesi della medesima logica, dove il volto agghiacciante della Bestia che ci parla dell'incertezza di ogni nostro fare, è condizione stessa del carnevalesco, del sovversivo verso ogni pretesa costruzione, sia essa ipocrita o semplicemente sciocca, e della quale non è possibile altro che farsi beffa, per farsi carico del problema che essa tenta di nascondere (struttura riportabile alla dinamica del motto di spirito secondo l'elaborazione freudiana)8.
Bisogna però dire che, in fin dei conti, lo stesso diavolo è un “povero diavolo”, è costitutivamente un inquieto, un'anima in pena, un mancante di qualcosa.
Un qualcosa di comico quindi, come ogni uomo. Ragion per cui col diavolo bisogna convivere senza fissarsi su convinzioni assolutizzate e irrimediabilmente votate alla corruzione, così come nel permanere in un'angoscia derivante dalla caduta di quelle stesse convinzioni.
Altro modo per dire che “non bisogna farsi il diavolo più nero di quel che è” (formula invece riportabile all'umorismo) e nella consapevolezza che c'è sempre la la donna che “ne sa una più del diavolo”.

1A. Dante, Commedia – Inferno, Canto XXXIV, 25; Garzanti Editore (collana i Grandi Libri), Milano 2000, p. 427.
2J. W. Goethe, Faust, BUR (Classici moderni), Milano 2010, p. 185.
3Ibidem.
4Ibidem.
5Ivi, p. 99.
6Ivi, p. 29.
7“Non cercate di difendere Dio con le vostre menzogne e la vostra frode. Vorreste prendere le parti di Dio e farvi suoi avvocati? […] Le vostre ragioni saranno ridotte in polvere e la vostra difesa sarà frantumata” (Giobbe 12, 7-13), diceva lo sfortunato Giobbe a chi cercava di giustificare la sua esperienza traumatica in base ad argomenti moralistici e guidati dal sano intelletto umano, dal dozzinale buon senso.
8Da questo punto di vista andrebbe svolta, ad esempio, una sistematica critica dell'opposizione a cui assistiamo nel dibattito pubblico tra la seriosità del politicamente corretto e il gretto identitarismo risentito.

venerdì 19 dicembre 2014

Il fascino del professor Wooland. Viaggio all'interno del capolavoro di Michail Bulgakov

  Il primo ciclo di elaborati de “Bottega della Pecora” andrà a trattare il fascino accattivante dell’elemento demoniaco legato al motto di spirito, in parole povere la cosiddetta burla. I miei obbiettivi, come la mia abilità alla tastiera, sono assolutamente modesti e basilari. Vorrei presentarvi un’opera molto controversa dell’autore russo Michail Bulgakov: “Il maestro e Margherita”. La storia di quest’opera è tanto travagliata quanto l’esistenza del suo artefice e verrà pubblicata in Germania nel 1967, quarant’anni dopo la sua prima stesura.

La tematica del fascino del diavolo e l’oculato umorismo di quest’ultimo si palesa sin dalle prime battute del romanzo dell’autore russo: irrompe nell’idillio della Russia dei primi anni 20’ questo Wooland, uno straniero specializzato in negromanzia. Il forestiero incontra due personaggi di spicco della Massolit, un’associazione letteraria sovietica, ed in seguito ad una conversazione spicciola sul presunto ateismo dei due amici, Wooland attira l’attenzione e le ire dei due per il suo fare burlesco, ma estremamente coscienzioso. Lo straniero si rivelerà essere l’essere più abominevole dell’intero creato: Satana, sovrano degli inferi. Wooland infastidito dall’esser burbero di uno dei due pensatori, Berlioz, decide di porre fine alla vita di  quest’ultimo, informando il diretto interessato della sua dipartita con un tono a dir poco farsesco.

[Berlioz]: “Forse lei sa di quale“ s'informò Berlioz con un'ironia perfettamente naturale, lasciandosi trascinare in un conversazione veramente assurda, - e me lo vorrà dire?
[Wooland]: “Volentieri“ replicò lo sconosciuto. Misurò Berlioz con lo sguardo, come se si accingesse a fargli un vestito, borbottò tra i denti qualcosa come: «Uno, due... Mercurio è nella seconda casa... la luna ne è uscita... sei: disgrazia... sera: sette...» e annunciò con voce forte e gioiosa: “Le taglieranno la testa!” ¹

I connotati della premonizione sono macabri quanto irrisori nei confronti del proprio interlocutore. L’essere demoniaco è in pieno coscienza di sé e delle proprie smisurate capacità e la via migliore per far notizia della propria sconfinata potenza è la dimostrazione della propria volontà, ornata da un merletto, ricamato magistralmente, di ironia. Wooland è un essere affascinante e vestito di tutto punto, un aristocratico dalla mente allenata che si prende gioco dell’intera Russia. L’elemento dell’esteriorità curata è indissolubile dall’elemento demoniaco in questo romanzo: il motto di spirito che lo straniero suscita nel lettore è amplificato dall’aspetto, per certi versi contenuto e minuziosamente architettato dello straniero.

Kacper Bozek (Cracovia, 1974) : Bal (Il ballo). Ispirato dall'opera di Bulgakov
Wooland, professore esperto nelle arti negromantiche, è contornato di scagnozzi quantomeno singolari ed uno di questi è Behemont, un gatto sovrappeso con atteggiamenti da consumato essere umano. Il nome richiama Begemont l’immensa bestia che appare nel libro di Giobbe che viene comunemente identificata con l’ippopotamo, quasi lo stesso autore abbia voluto mettere in relazione la mole mastodontica di Begemont e la “scarsa forma” del gattone che presenzia per tutta la durata del romanzo. Behemont è un essere davvero bizzarro che si diverte a creare scompiglia con i suoi innati poteri nel centro di Mosca, la sua figura è l’elemento che fa suscitare il riso e quel “motto di spirito” che tanto cerco di sottolineare nella mia disamina.

[…] E successe una cosa inaudita. Il pelo del gatto nero si rizzò, e l'animale miagolò da spaccare i timpani. Poi si raccolse su se stesso e balzò come una pantera sul petto di Bengal'skij; di lí saltò sulla sua testa. Con un borbottio, il gatto affondò le gonfie zampe nella rada capigliatura del presentatore, e, con un urlo tremendo, gli strappò la testa dopo averla fatta ruotare due volte sul collo grassoccio. ²

Il gatto è inflessibile nel suo esser estremamente appesantito da un’esistenza vissuta da medio borghese trangugiando aringhe e bevendo alcolici, non conserva quelle fattezze di estrema eleganza che sono proprie del suo padrone, ma risulta ugualmente mortifero. La caratura di questo personaggio è dettata dall’imprevedibilità di costui: Behemont è l’elemento comico per definizione poiché rappresenta tutti i vizi, le pulsioni e le debolezze dell’esser umano. Un elemento che perturba in maniera inconsulta, priva di senso e repentina all’interno del romanzo di Bulgakov. La straordinarietà di Behemont risiede nel far suscitare risate  fragorose nei momenti più tragici dell’opera. Il personaggio dell’autore russo è una burlesca canzonatura de “Il Gatto Nero” di Edgar Allan Poe, ripercorrendo parallelamente i due racconti il paragone sembra meno ardito di quanto si possa pensare. L’esser demoniaco viene espresso tramite le due forme che lo determinano: l’odio che prende via via forma e corpo all’interno dell’uomo, il disprezzo come un qualcosa che ci porta ad un’erosione interiore e divenire bestie scheletriche pronte a tormentare il prossimo con questo sentimento a dir poco straordinario, quanto mai lacerante, esemplificato ed allegorizzato dal gatto murato di Edgar Allan Poe. Il riso che prende possesso di noi e tramite il quale l’entità demoniaca ci seduce ci rende pasciuti e pingui come Behemont, il motto di spirito ci fa in qualche modo ingrassare come una sorta di leccornia che boccone dopo boccone ci distoglie dalla grigia realtà, facendoci scordare ansie e preoccupazioni dell’essere. 

Un passo esemplificativo de “Il Maestro e Margherita” della seduzione del diavolo collegata alla burla è una palese citazione, architettata con pregevole maestria da Bulgakov, dell’Odissea di Omero. Nella fattispecie il libro X, nell’episodio in cui la Maga Circe trasforma la ciurma di Odisseo in porci. Nataša assumerà le vesti della celebre strega andando a trasformare il malcapitato Nikolaj Ivanovic in un umile verro.

[Nikolaj] “Esigo che mi venga restituito il mio aspetto normale!” rantolò e grugní a un tratto il verro con tono fra il disperato e il supplichevole. - E non intendo volare a un assembramento illegale! Margherita Nikolaevna, lei ha l'obbligo di ridurre alla ragione la sua cameriera!
[Nataša] “Ah, sicché adesso sarei la cameriera per te? La cameriera?“ gridava Nataša, pizzicando l'orecchio del verro. - E non ero una regina? Non mi chiamavi cosí?
[Nikolaj] “Venere!“ rispose lamentosamente il verro, volando sopra un torrente spumeggiante fra le rocce e sfiorando con gli zoccoli i cespugli di nocciolo.
[Nataša] “Venere! Venere!” proclamò vittoriosamente Nataša, mettendosi una mano sul fianco e protendendo l'altra verso la luna. ³

L’uomo viene assoggettato dalla donna, elemento demoniaco per antonomasia in quanto perturbatore, ma non viene solamente depauperato della sua proverbiale leadership, bensì viene ridicolizzato e schernito come una bestia facilmente assoggettabile. Il motto di spirito è generato dallo sprezzante scambio di battute e rovesciamento dei ruoli che si profila nel passo sopracitato. “Venere” è l’appellativo più inaspettato perché pronunciato malvolentieri da Nikolaj e si discosta completamente dall’esser perfetto che designa questo apostrofe: Nataša è splendida e nuda in groppa all’animale, ma è corrotta dall’entità demoniaca che le ha donato questo aspetto e cozza con l’elemento etereo e candido della dea che tanto ha ispirato gli scritto lucreziani. Nataša non è la maga Circe, bensì una strega folle e sconclusionata ebbra dei propri poteri privata di quell’alone di rispetto della propria posizione privilegiata, riducendosi ad un mero elemento comico e di disturbo.

La mia ridondanza del motto di spirito potrebbe risultare stucchevole e di poco interesse, ma francamente se il tema vi è caro e non avete mai impattato con questo capolavoro, la Bottega della Pecora ve lo consiglia caldamente. Il parallelismo dell’Unione Sovietica attanagliata dal regime stalinista con un mondo ctonio ed infero stride fortemente: una società dotata di leggi e regole oppressive sconvolta da elementi perturbatrici del sottosuolo rovescia le convinzioni dei cittadini di Mosca degli anni ’30. L’esser demoniaco non è malevolo, nonostante il suo esser mortifero, ma è sinonimo di volontà di evasione da parte dell’autore stesso. Il cambiamento totale di un sistema che ha piegato più volte Bulgakov, portandolo a chiedere l’espatrio. 

“Il Maestro e Margherita” è un romanzo autobiografico, ispirato largamente dal Faust di Goethe, e come tale è dotato di una venatura satirica estremamente accattivante La produzione del romanzo è stata ostacolata dalle autorità dell’Unione Sovietica per la sua caratura critica nei confronti della società del tempo. Lo stesso Stalin, con un breve scambio di missive, intimerà a Bulgakov di terminare la stesura del romanzo e lasciarlo nel proverbiale dimenticatoio, ma fortunatamente i manoscritti dell’autore russo verranno recuperati e riordinati nella Germania degli anni 60’ dove il romanzo verrà dato alla luce del grande pubblico raccogliendo grandi consensi. Bulgakov non godrà mai del successo della propria opera poiché scomparse a Mosca nel 1940, dopo essere stato esule a Parigi per sei anni.

Bibliografia:
1 “Il Maestro e Margherita” – Michail Bulgakov. Oscar Mondadori Classi Moderni (1991)
2 Ibidem
3 Ibidem