Che cosa leghi la
figura del diavolo alla burla è un tema quanto mai complesso, a cui
non ci sentiamo minimamente in grado di corrispondere con un esame
che possa vantare caratteri di compiutezza anche minimi, sarà
piuttosto nostro fine quello di esplicitare alcune linee
argomentative che consideriamo d'interesse.
La figura del
demonio infatti par esser denotata da un'ambivalenza fondamentale per
cui può allo stesso tempo rappresentare quell'entità malefica
angosciante, paralizzante, dinnanzi alla quale ad esempio Dante dice:
“io non mori' e non rimasi vivo”1,
oppure la figura legata allo scherno, alla registrazione di
un'inadeguatezza, sia questa propria del diavolo stesso o di chi il
diavolo canzona.
Volendo approfondire
questa articolazione ci viene in aiuto il Faust goethiano,
dove la figura di Mefistofele ricopre propriamente questo secondo
tipo di diabolicità, e lo fa consapevolmente in quanto dice:
Mefistofele: […] Già, la
cultura che raffina il mondo, ormai s'è attaccata anche al diavolo.
E il fantasma nordico è stato tolto dalla circolazione. Corna,
coda, artigli: chi li vede più? E quanto al piede, di cui non posso
fare a meno e che tra la gente mi farebbe scomparire, da parecchi
anni rimedio, portando, come certi giovanotti, polpacci finti.2
Si ha nel Faust
l'emergere di una figura di diavolo all'altezza del costume moderno,
un “Signor Barone”3
che si vergogna della sua figura medievale di demone sconvolgente e
macabro, rilegata ormai al mondo della superstizione, e che si palesa
come un uomo, un “cavaliere come tutti gli altri”4.
Che tal figura
presenti una forte carica ironica lo si coglie proprio dall'accenno
ai gambali che il diavolo è costretto ad indossare per non palesare
il suo zoccolo cavallino, di cui non può disfarsi.
Ne risulta ad un
primo livello una vicinanza tra il diavolo e l'umano, proprio in
luogo della comune imperfezione, ci si può però chiedere che fine
faccia l'immagine agghiacciante del demonio, ma prima di questo
dovremo dire qualcos'altro.
Guardando più da
vicino il nome, scopriamo che “diavolo” deriva dal greco
diaballein, che alla lettera
significa “gettare attraverso”. Il diavolo è quindi legato a
qualcosa che fondamentalmente è andato storto, ad un caso,
ad uno squilibrio che si è prodotto e all'interno del quale si trova
anche l'uomo.
A
ciò è quindi legata la finalità intima di Mefistofele, che è
assolutamente nichilistica: esso infatti continua a sottolineare la
fondamentale insensatezza della schisi che si è aperta in luogo
dell'uomo e della sua Ragione ed agisce proprio per affermare
l'inanità di ogni scopo determinato. Allo stesso tempo è però
consapevole della sua sottomissione ad una potenza superiore, ad esso
opposta, ma che non scalfisce la sua natura oppositiva:
Mef: Sono una parte di quella
forza che vuole sempre il Male ed opera sempre il Bene
Faust: Che vorresti dire con
questo tuo enigma?
Mef: sono lo spirito che nega
sempre. E con ragione: perchè tutto quello che nasce è degno di
finire in perdizione. E però meglio sarebbe che non nascesse
nulla.5
Emerge quindi il
fatto che il diavolo è quanto di più connaturato all'uomo, esso è
anzi, nel disegno di Dio stesso, necessario per “stimolare”6
l'uomo, il quale altrimenti fermerebbe la sua attività in una pace
immota, ovvero un autismo di morte.
Possiamo quindi già
vedere una triangolazione di concetti che organizza una logica
economica:
dato una iniziale
differenza (schisi), vi è il disporsi di un'opposizione, dove ognuna
delle due forze in campo (I-la negazione incessante di Mefistofele,
la tendenza ad un regime di muta indistinzione e II- l'attività di
rilancio, di legame, di relazione ad altro, di domanda di cui si fa
portatore Faust) tende a permanere ad un livello minimale di
sollecitazione ovvero a seguire indisturbatamente la sua tendenza.
Dato che siamo però
in una struttura oppositiva, le due forze sono messe in forma
dall'opposizione stessa, con la conseguenza che la loro impossibilità
allo zero è la marca stessa della differenza.
Se infatti ogni
forza vuol permanere indisturbatamente presso un livello zero di
sollecitazione, ma il campo che le informa le dispone come opposte,
ogni conservazione del proprio livello da parte di una forza sarà la
perturbazione dell'altra e viceversa.
Si avrà quindi una
loro conformazione dinamica, la quale tende a produrre equilibri
compromissori in relazione all'incessante ritorno della loro
divergenza.
Con un salto mortale
ci siamo quindi portati in un campo concettuale assimilabile a quello
freudiano, il che ci permetterà, con il rimando al testo sul Witz,
di specificare meglio la relazione tra il diavolo e la burla.
Mefistofele infatti
è costantemente impegnato nel registro del motto di spirito e
dell'umorismo, dove queste
due sono entrambe tecniche espressive che, pur diversamente, palesano
la comicità ovvero
l'inadeguatezza di un'identità. Detto altrimenti essi descrivono
l'uscita e la contemporanea messa a tema, di quella stessa
organizzazione di forme che toccano.
Il
Witz e l'umorismo permettono quindi di esprimere potenze, aggirando
le individuazioni che vi si oppongono, mantenendo però controllato
il livello di divergenza tra le forze (dispiacere), di modo da non
portare al punto di rottura tale fragile equilibrio.
Si
capisce subito come questo implichi un interminabile lavoro di
corrispondenza, da parte di Faust, a questa dinamica di nomadismo a
cui Mefistofele lo costringe: quest'ultimo infatti non fa altro che
mostrare l'insufficienza, la stupidità e l'inanità di ogni meta
faustiana, ma allo steso tempo, così facendo, produce continuamente
spazio al desiderio di Faust, che altrimenti imploderebbe.
Questa
pratica di negazione insistente e canzonatoria, che tanto ci fa amare
Mefistofele e la sua arguzia, relativizza ogni feticcio, abbatte le
resistenze di Faust, ma contemporaneamente questa stessa
irrequietezza, così sovversiva, non può che presentare anche
l'altra sua faccia: quella della crudeltà, dell'aggressività.
Forse
in questo senso il vecchio demone nordico si è conservato. In questa
figura che par testimoniare del complesso d'evirazione, per cui il
problema della propria determinatezza lo si gestisce anche alla luce
di questo “qualcosa” che è da sempre ed irrimediabilmente messo
di traverso e che Lacan
chiamerebbe il Reale, troviamo la figura angosciante che parla
dell'impotenza di cui facciamo esperienza, ovvero del fatto che
l'uomo non è Dio e che il tentativo di occupare quel posto non può
che avere risultati catastrofici.
Il
reale è quindi quell'urto che insistentemente inerisce ad ogni
organizzazione concettuale, testimoniando della necessità di non
assolutizzare la logica che la organizza. Un urto che, a quella
logica determinata, non può che presentarsi come corruttore, come
caos, ma che è condizione di pensabilità della dinamica
problematica di cui l'uomo partecipa e che solo dogmaticamente e con
un'ipocrisia consolatoria si può iscrivere in una “Provvidenza”
umana troppo umana7.
Domando
scusa per la verbosità, ma tornando alle nostre due figure del
diavolo possiamo concludere che esse si danno come espressioni
coimplicantesi della medesima logica, dove il volto agghiacciante
della Bestia che ci parla dell'incertezza di ogni nostro fare, è
condizione stessa del carnevalesco, del sovversivo verso ogni pretesa
costruzione, sia essa ipocrita o semplicemente sciocca, e della quale
non è possibile altro che farsi beffa, per farsi carico del problema
che essa tenta di nascondere (struttura riportabile alla dinamica del
motto di spirito secondo
l'elaborazione freudiana)8.
Bisogna
però dire che, in fin dei conti, lo stesso diavolo è un “povero
diavolo”, è costitutivamente un inquieto, un'anima in pena, un
mancante di qualcosa.
Un
qualcosa di comico quindi, come ogni uomo. Ragion per cui col diavolo
bisogna convivere senza fissarsi su convinzioni assolutizzate e
irrimediabilmente votate alla corruzione, così come nel permanere in
un'angoscia derivante dalla caduta di quelle stesse convinzioni.
Altro
modo per dire che “non bisogna farsi il diavolo più nero di quel
che è” (formula invece riportabile all'umorismo) e nella
consapevolezza che c'è sempre la la donna che “ne sa una più del
diavolo”.
1A.
Dante, Commedia – Inferno, Canto XXXIV, 25; Garzanti
Editore (collana i Grandi Libri), Milano 2000, p. 427.
2J.
W. Goethe, Faust, BUR (Classici moderni), Milano 2010, p.
185.
3Ibidem.
4Ibidem.
5Ivi,
p. 99.
6Ivi,
p. 29.
7“Non
cercate di difendere Dio con le vostre menzogne e la vostra frode.
Vorreste prendere le parti di Dio e farvi suoi avvocati? […] Le
vostre ragioni saranno ridotte in polvere e la vostra difesa sarà
frantumata” (Giobbe 12, 7-13), diceva lo sfortunato Giobbe a chi
cercava di giustificare la sua esperienza traumatica in base ad
argomenti moralistici e guidati dal sano intelletto umano, dal
dozzinale buon senso.
8Da
questo punto di vista andrebbe svolta, ad esempio, una sistematica
critica dell'opposizione a cui assistiamo nel dibattito pubblico tra
la seriosità del politicamente corretto e il gretto identitarismo
risentito.
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