mercoledì 24 dicembre 2014

...Se il diavolo non ci mette la coda




Che cosa leghi la figura del diavolo alla burla è un tema quanto mai complesso, a cui non ci sentiamo minimamente in grado di corrispondere con un esame che possa vantare caratteri di compiutezza anche minimi, sarà piuttosto nostro fine quello di esplicitare alcune linee argomentative che consideriamo d'interesse.


La figura del demonio infatti par esser denotata da un'ambivalenza fondamentale per cui può allo stesso tempo rappresentare quell'entità malefica angosciante, paralizzante, dinnanzi alla quale ad esempio Dante dice: “io non mori' e non rimasi vivo”1, oppure la figura legata allo scherno, alla registrazione di un'inadeguatezza, sia questa propria del diavolo stesso o di chi il diavolo canzona.
Volendo approfondire questa articolazione ci viene in aiuto il Faust goethiano, dove la figura di Mefistofele ricopre propriamente questo secondo tipo di diabolicità, e lo fa consapevolmente in quanto dice:

Mefistofele: […] Già, la cultura che raffina il mondo, ormai s'è attaccata anche al diavolo. E il fantasma nordico è stato tolto dalla circolazione. Corna, coda, artigli: chi li vede più? E quanto al piede, di cui non posso fare a meno e che tra la gente mi farebbe scomparire, da parecchi anni rimedio, portando, come certi giovanotti, polpacci finti.2

Si ha nel Faust l'emergere di una figura di diavolo all'altezza del costume moderno, un “Signor Barone”3 che si vergogna della sua figura medievale di demone sconvolgente e macabro, rilegata ormai al mondo della superstizione, e che si palesa come un uomo, un “cavaliere come tutti gli altri”4.
Che tal figura presenti una forte carica ironica lo si coglie proprio dall'accenno ai gambali che il diavolo è costretto ad indossare per non palesare il suo zoccolo cavallino, di cui non può disfarsi.
Ne risulta ad un primo livello una vicinanza tra il diavolo e l'umano, proprio in luogo della comune imperfezione, ci si può però chiedere che fine faccia l'immagine agghiacciante del demonio, ma prima di questo dovremo dire qualcos'altro.
Guardando più da vicino il nome, scopriamo che “diavolo” deriva dal greco diaballein, che alla lettera significa “gettare attraverso”. Il diavolo è quindi legato a qualcosa che fondamentalmente è andato storto, ad un caso, ad uno squilibrio che si è prodotto e all'interno del quale si trova anche l'uomo.
A ciò è quindi legata la finalità intima di Mefistofele, che è assolutamente nichilistica: esso infatti continua a sottolineare la fondamentale insensatezza della schisi che si è aperta in luogo dell'uomo e della sua Ragione ed agisce proprio per affermare l'inanità di ogni scopo determinato. Allo stesso tempo è però consapevole della sua sottomissione ad una potenza superiore, ad esso opposta, ma che non scalfisce la sua natura oppositiva:

Mef: Sono una parte di quella forza che vuole sempre il Male ed opera sempre il Bene
Faust: Che vorresti dire con questo tuo enigma?
Mef: sono lo spirito che nega sempre. E con ragione: perchè tutto quello che nasce è degno di finire in perdizione. E però meglio sarebbe che non nascesse nulla.5

Emerge quindi il fatto che il diavolo è quanto di più connaturato all'uomo, esso è anzi, nel disegno di Dio stesso, necessario per “stimolare”6 l'uomo, il quale altrimenti fermerebbe la sua attività in una pace immota, ovvero un autismo di morte.
Possiamo quindi già vedere una triangolazione di concetti che organizza una logica economica:
dato una iniziale differenza (schisi), vi è il disporsi di un'opposizione, dove ognuna delle due forze in campo (I-la negazione incessante di Mefistofele, la tendenza ad un regime di muta indistinzione e II- l'attività di rilancio, di legame, di relazione ad altro, di domanda di cui si fa portatore Faust) tende a permanere ad un livello minimale di sollecitazione ovvero a seguire indisturbatamente la sua tendenza.
Dato che siamo però in una struttura oppositiva, le due forze sono messe in forma dall'opposizione stessa, con la conseguenza che la loro impossibilità allo zero è la marca stessa della differenza.
Se infatti ogni forza vuol permanere indisturbatamente presso un livello zero di sollecitazione, ma il campo che le informa le dispone come opposte, ogni conservazione del proprio livello da parte di una forza sarà la perturbazione dell'altra e viceversa.
Si avrà quindi una loro conformazione dinamica, la quale tende a produrre equilibri compromissori in relazione all'incessante ritorno della loro divergenza.
Con un salto mortale ci siamo quindi portati in un campo concettuale assimilabile a quello freudiano, il che ci permetterà, con il rimando al testo sul Witz, di specificare meglio la relazione tra il diavolo e la burla.
Mefistofele infatti è costantemente impegnato nel registro del motto di spirito e dell'umorismo, dove queste due sono entrambe tecniche espressive che, pur diversamente, palesano la comicità ovvero l'inadeguatezza di un'identità. Detto altrimenti essi descrivono l'uscita e la contemporanea messa a tema, di quella stessa organizzazione di forme che toccano.
Il Witz e l'umorismo permettono quindi di esprimere potenze, aggirando le individuazioni che vi si oppongono, mantenendo però controllato il livello di divergenza tra le forze (dispiacere), di modo da non portare al punto di rottura tale fragile equilibrio.
Si capisce subito come questo implichi un interminabile lavoro di corrispondenza, da parte di Faust, a questa dinamica di nomadismo a cui Mefistofele lo costringe: quest'ultimo infatti non fa altro che mostrare l'insufficienza, la stupidità e l'inanità di ogni meta faustiana, ma allo steso tempo, così facendo, produce continuamente spazio al desiderio di Faust, che altrimenti imploderebbe.
Questa pratica di negazione insistente e canzonatoria, che tanto ci fa amare Mefistofele e la sua arguzia, relativizza ogni feticcio, abbatte le resistenze di Faust, ma contemporaneamente questa stessa irrequietezza, così sovversiva, non può che presentare anche l'altra sua faccia: quella della crudeltà, dell'aggressività.
Forse in questo senso il vecchio demone nordico si è conservato. In questa figura che par testimoniare del complesso d'evirazione, per cui il problema della propria determinatezza lo si gestisce anche alla luce di questo “qualcosa” che è da sempre ed irrimediabilmente messo di traverso e che Lacan chiamerebbe il Reale, troviamo la figura angosciante che parla dell'impotenza di cui facciamo esperienza, ovvero del fatto che l'uomo non è Dio e che il tentativo di occupare quel posto non può che avere risultati catastrofici.
Il reale è quindi quell'urto che insistentemente inerisce ad ogni organizzazione concettuale, testimoniando della necessità di non assolutizzare la logica che la organizza. Un urto che, a quella logica determinata, non può che presentarsi come corruttore, come caos, ma che è condizione di pensabilità della dinamica problematica di cui l'uomo partecipa e che solo dogmaticamente e con un'ipocrisia consolatoria si può iscrivere in una “Provvidenza” umana troppo umana7.
Domando scusa per la verbosità, ma tornando alle nostre due figure del diavolo possiamo concludere che esse si danno come espressioni coimplicantesi della medesima logica, dove il volto agghiacciante della Bestia che ci parla dell'incertezza di ogni nostro fare, è condizione stessa del carnevalesco, del sovversivo verso ogni pretesa costruzione, sia essa ipocrita o semplicemente sciocca, e della quale non è possibile altro che farsi beffa, per farsi carico del problema che essa tenta di nascondere (struttura riportabile alla dinamica del motto di spirito secondo l'elaborazione freudiana)8.
Bisogna però dire che, in fin dei conti, lo stesso diavolo è un “povero diavolo”, è costitutivamente un inquieto, un'anima in pena, un mancante di qualcosa.
Un qualcosa di comico quindi, come ogni uomo. Ragion per cui col diavolo bisogna convivere senza fissarsi su convinzioni assolutizzate e irrimediabilmente votate alla corruzione, così come nel permanere in un'angoscia derivante dalla caduta di quelle stesse convinzioni.
Altro modo per dire che “non bisogna farsi il diavolo più nero di quel che è” (formula invece riportabile all'umorismo) e nella consapevolezza che c'è sempre la la donna che “ne sa una più del diavolo”.

1A. Dante, Commedia – Inferno, Canto XXXIV, 25; Garzanti Editore (collana i Grandi Libri), Milano 2000, p. 427.
2J. W. Goethe, Faust, BUR (Classici moderni), Milano 2010, p. 185.
3Ibidem.
4Ibidem.
5Ivi, p. 99.
6Ivi, p. 29.
7“Non cercate di difendere Dio con le vostre menzogne e la vostra frode. Vorreste prendere le parti di Dio e farvi suoi avvocati? […] Le vostre ragioni saranno ridotte in polvere e la vostra difesa sarà frantumata” (Giobbe 12, 7-13), diceva lo sfortunato Giobbe a chi cercava di giustificare la sua esperienza traumatica in base ad argomenti moralistici e guidati dal sano intelletto umano, dal dozzinale buon senso.
8Da questo punto di vista andrebbe svolta, ad esempio, una sistematica critica dell'opposizione a cui assistiamo nel dibattito pubblico tra la seriosità del politicamente corretto e il gretto identitarismo risentito.

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