lunedì 29 dicembre 2014

Quando Dante se la ride

Nero, superbo, fulmineo: così appare Malacoda, diavolo della V bolgia, Inferno XXI, sorgendo alle spalle di Dante da un abisso di pece. È lo sgomento nel suo cuore, sensibilmente scosso e toccato dalla fisicità di una bestia vibrante, letale, apparentemente ineludibile – diabolica!, nel senso più efferato del termine.
Il realismo della scena (Dante ne è riconosciuto maestro) è vivido e tremendo nella malignità che viene descritta: si ha la sensazione impotente di trovarsi come preda succulenta nella tana dei lupi; tanto più che Malacoda non è solo, ma l'accompagnano dieci sottoposti, altrettanto rabbiosi e furenti: unico passatempo per l'eternità tutta è tormentare, infilzare, scuoiare i dannati barattieri, immersi (che sadismo ridondante!) pure nella pece bollente. È ben notare che son diavoli diversi da altri già incontrati specialmente nei primi canti: quelli, come Cerbero, Caronte, Minosse, son demoni della tradizione classica, di ferree e autoritarie movenze, placidi quasi da sembrare annoiati funzionari della burocrazia oltremondana; questi sono invece demoni cristiani, angeli caduti e rinneganti il loro antico Signore. Entrambi, certo, condividono la medesima crudeltà inflessibile e un'uguale dedizione al male, ma questi ultimi (chiamati i “Malebranche”) conservano tratti interessanti del loro passato angelico che i primi non hanno, cioè una divina intelligenza e il gusto disponibile e interessato per il dialogo con l'uomo. Son qui, in questa matrice religiosa, che troviamo le radici della figura diabolica come topos letterario: nell'essere controparte maligna di un'eccellenza benigna, il suo negativo fotografico brillante, svettante verso il basso, invidiabile.

Illustrazione di Lorenzo Mattotti per Inferno XXII (Nuages, 1999)

Se non fosse che, continuando la lettura del canto, questa diabolica fierezza è declinata in forme forse degradanti, ma nelle quali sedimenta il sale della loro caratterizzazione – forme umane, tipizzate, comunemente viziose, che stridono clamorosamente (tanto da strappare un sorriso) con tanta maligna e definita qualificazione: emergono sostanzialmente, variamente combinati al terrificante, i caratteri del grottesco, del comico, del buffonesco.
Così se, rivolgendosi ad un disgraziato immerso nella pece in laconici (e urlati) versi

[…] “Qui non ha luogo il Santo Volto:
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”

si cicatrizza nel lettore una lucida condanna che dispiega la rovina eterna, subito dopo il tono degenera: li si vede esprimersi in insulti, invettive e subdole ironie, con buona pace dell'epica teatralità dell'attimo prima. Ma come?, c'è da chiedersi; e il buffonesco si fa via via più degradante e infimo, tanto che Malacoda si congeda dalla truppa (che si rivela disordinata, chiassosa, indisciplinata: salta fuori una gran cagnara molesta e triviale) con una sonora scorreggia. Cristo! È Rabelais che entra nell'Inferno dantesco, o, per esigenze cronologiche, Dante che siede ospite della corte di Gargantua.
E tutto il seguente avvicendarsi della brigata demoniaca è un susseguirsi di sproloqui grossolani e avventatezze da scemi, addirittura fino alla zuffa, che si conclude con due diavoli che finiscono a mollo nella pece bollente rivelando (è il culmine di questo parossismo) una pelle assai sensibile alle ustioni! Tanta è l'ira da cui sono dominati e trascinati in ridicolo, che quasi suscitano compassione per la loro goffa grettezza. Si mantengono maestosi, esemplari di una fisicità atletica e di una volontà ineludibile verso la depravazione – vere macchine di crudeltà – ma pure non sono in grado di esimersi dal cadere così prosaicamente nel grossolano.
E non potrebbe essere altrimenti: il male si esplica qui nelle forme del comico come se non avesse altre vie di sfogo, come necessario prezzo da pagare per coniugare insieme la discendenza angelica e la tensione al male in un'unica figura. L'umanizzazione e la degradazione a cose terrene: questi gli effetti della contraddizione (forse non rigorosamente logica, ma efficacissima senza dubbio a livello narrativo), questa la forza d'espressione micidiale. Il fenomeno si può parimenti notare in ogni forma del diabolico, come passaggio obbligato verso elementi più umani che eterei, più triviali e multiformi che angelici e assoluti. Il Medioevo è stato fucina incessante di grottesche rappresentazioni del reale, e nei toni del diabolico ha usato colori particolarmente vivi: ogni astrattezza maligna è sempre ricondotta alla sfera animale, terrena, scatologica perfino, non per sminuirne la portata, ma perché anzi proprio lì risiede la sua licenza di inferire sull'uomo e sulle sue miserie. Tanto più la comicità, quando indossata dal male nelle rappresentazioni che Dante ci offre, risulta in grado di ferire, sfuggire, di restare imprevedibile all'uomo se questo non vi si adatta e non vi declina similmente le proprie risposte: il tono arguto, la battuta sagace, il motto di spirito. Non a caso i canti XXI-XXII sono tutti all'insegna della burla, verso cui si piegano il lessico soprattutto e le scene. Dante, quasi con codardia, si nasconde assai poco dignitosamente dietro una roccia, ed è Virgilio stesso, con una certa malizia, a chiederglielo. Come se prendesse parte pure lui alle burle dei Malebranche. Si tratta di forme atipiche del confronto tra l'uomo e la bestia (niente latrati affannosi, niente membra in tensione reciproca e niente zanne brutalmente nella carne), attraverso le quali il male può rendersi concretamente – e verosimilmente – insidioso; si è visto come, dopotutto, esse siano anche le uniche possibili, pena la perdita di minaccia e di efficacia.


Certo, sorvolando su queste considerazioni posteriori e sfocando dal tema di una comicità necessaria al male, c'è da dire che quanto è messo in opera da Dante non è affatto originale e appartiene ad una rigogliosa tradizione letteraria medievale, detta “carnascialesca”, i cui intenti sono volutamente dissacratori, buffoneschi, satirici. E, qui, la volontà prima di Dante è aderente a questo filone: una semplice ironia gagliarda su alcune mostruosità (i diavoli infernali in questo caso) che il Medioevo conosceva così bene da abusarne profanamente. Senza dubbio c'è da riconoscergli il merito di aver immortalato in questi due canti un esempio icastico del genere carnascialesco, fin troppo trascurato e relegato alla considerazione di mero intrattenimento popolare, sia per i temi apparentemente frivoli, sia perché la sua tradizione è quasi sempre in massima parte orale. Poco importa, insomma, se la farina non è tutta del suo sacco, o se voleva solamente divertire i suoi lettori (ci mancherebbe!). Nulla da sindacargli dunque, specie perché al Dante scrittore e poeta, a dire il vero, si può rimproverare gran poco.

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