mercoledì 1 aprile 2015

Baudelaire e Lautréamont: Una "danse macabre" tra Cielo e Inferno

L’horror, quale genere letterario e cinematografico, sembra essere caratterizzato dalla presenza di scene raccapriccianti e spaventose, create tramite l’introduzione di situazioni e contesti oscuri e tenebrosi in cui talvolta il limite tra reale e soprannaturale risulta sfumato e confuso, al fine di suscitare orrore e paura nel fruitore. Se l’horror nelle sue manifestazioni più mediocri e scadenti può risultare sottomesso ad una logica della paura per la paura e del disgusto per il disgusto, questo certamente non vale per le sue espressioni più alte e raffinate.
Il genere horror contemporaneo presenta, infatti, molteplici antenati insigni, tra cui il romanticismo e il decadentismo ottocenteschi. Prodotto e appendice di questi correnti artistiche è, infatti, il cosiddetto maledettismo, la cui più palese rivelazione può essere rinvenuta in concomitanza con la pubblicazione da parte di Paul Verlaine dell’opera Les Poètes Maudits nel 1884, sebbene una sua prima comparsa fu testimoniata nel 1832.
Uno dei poeti maledetti per antonomasia è il celebre Arthur Rimbaud che così si esprime nell’incipit della sua opera, pubblicata nel 1873, Une Saison en Enfer:

[…] Oh streghe, miseria, odio, a voi, è stato affidato il mio tesoro!
Mi riuscì di far dileguare dal mio spirito tutta l’umana speranza. Su ogni gioia per soffocarla ho fatto il balzo sordo della bestia feroce.
Ho invocato i carnefici per addentare, morendo, il calcio dei loro fucili. Ho invocato i flagelli per asfissiarmi nella sabbia, nel sangue. Il malanno è stato il mio dio. Mi sono disteso nel fango. Mi sono asciugato al vento del delitto. E alla follia ho giocato qualche brutto tiro.
E la primavera mi ha portato il riso atroce dell’idiota.1

In questo passaggio risulta chiaro ed emblematico l’atteggiamento che fu proprio di tutti gli esponenti di questa tendenza letteraria, ovvero il riferimento continuo, imprescindibile ed ineliminabile a tutto ciò che nella vita vi è di perturbante ed inquietante, a tutto ciò che rivela l’orrore che si trova al fondo di quell’abisso che è la condizione umana.
Compiendo un balzo alle spalle di Rimbaud, ma rimanendo in ambito francofono, possiamo fare un incontro altrettanto intrigante con altre due anime dialoganti con l’angelo caduto, alias Satana,2 che altri non sono che Charles Baudelaire e Lautréamont (pseudonimo di Isidore Lucien Ducasse). Molti degli elementi e delle figure classiche del genere horror popolano una delle opere più famose di Baudelaire, Les Fleurs du Mal (1857); essa è, infatti, percorsa e attraversata da fantasmi notturni, donne vampiro dagli occhi verdi e spinte da una sete insaziabile per il sangue del loro amato, assassini cruenti e da una schiera animalesca che conta tra le sue fila gatti, serpenti, gufi e pipistrelli. Suggestioni di scene fantastiche e surreali fanno la loro comparsa e apparizione in ogni cantone della raccolta poetica, creando un’atmosfera in bilico tra l’incubo e la visione allucinata:

Spettro particolare: addobbato soltanto,
sulla fronte di scheletro, di un diadema orrendo,
resto grottesco di un carnevalesco ballo.
Senza speroni e frusta, va spronando un cavallo,
un fantasma anche lui, ronzino apocalittico,
le narici schiumanti, come fosse epilettico.
Ecco che insieme in spazi sconfinati sprofondano,
l’infinito percuotono con zoccoli d’azzardo. […]3

Non si creda però che l’orrore di questa opera e di questo autore si esplichi unicamente nelle brume di un’aura fantastica, per quanto angosciante e nelle spoglie inusuali di personaggi magici e misteriosi. Il nostro poeta non teme gli eccessi, come la sua stessa vita (storia) biografica ci mostra, ma anzi è consumato da un’impulso che lo induce ad intraprendere il tentativo tragico di oltrepassare ogni limite estremo; tensione che si manifesta anche negli innumerevoli inviti al viaggio, voyage quasi sempre in direzione dell’esotico e dell’ignoto: emblematica metafora della vita.

Su, Morte, capitano, è tempo di salpare!
Via l’ancora, m’annoia troppo questo paese.
Se neri come inchiostro sono il cielo e il mare,
le nostre menti, sai, sono di luce accese.

Versaci il tuo veleno: esso ci riconforta!
Vogliamo, tanto forte ci brucia dentro un fuoco,
andar giù nell’abisso: Cielo o Inferno, che importa?
Fino in fondo all’Ignoto per incontrare il nuovo!4

Da questi ultimi notevoli versi emerge quella che forse è l’anima delle considerazioni di Baudelaire sul tema. L’orrore è dipinto nello sguardo, che paralizzato  come avesse di fronte Medusa, fissa l’abisso della natura dell’uomo, angelo caduto e caduco, che affannosamente si sforza di restare a galla nella procella di miserie che è il mondo. L’uomo è, similmente al Diavolo, «un dannato che, privo di lanterna,/ - sull’orlo di un abisso il cui odore/ svela la profondità, l’umidore -/ scende una scala senza rampe, eterna».5 Pur vessando in una condizione disperata, l’individuo umano è in grado di trovare al fondo del suo cuore un lumicino, un briciolo di speranza, che lo fa aspirare alla salvezza, alla redenzione divina, forse non tanto a discapito della miseria umana quanto proprio in ragion sua. Baudelaire nella sua attività letteraria manifesta un profondo gusto per il macabro, per l’orrido e il grottesco al punto tale da poter riconoscere in ciò una forma di amore e piacere per il male più oscuro e atroce. Tale forma di amore, ambivalente e perennemente oscillante tra un odi et amo, costituisce forse il radicale e turbolento tentativo, di un’anima sensibile al dramma del mondo, di salvare la realtà in ogni sua contraddizione, poiché solo così l’aspirazione al Cielo (sebbene «Coperchio nero della pentola atroce/ dove l’umanità, nascosta, e immensa, cuoce»)6 e al bene sembra legittimata. Solamente discendendo nell’abisso informe e caotico del divenire del mondo, solo abbracciando gli orrori delittuosi che lo compongono, unicamente ricercando sino all’ossessione «il vuoto, e il nero, e il nudo»7 è possibile sperare in una risalita; l’anabasi succede inesorabilmente ad una catabasi, poiché solo attraverso la Distruzione del mondo passa la possibilità della sua redenzione, quasi prefigurando il nichilismo messianico di Walter Benjamin.
La discesa agli Inferi è costellata di cadaveri, scheletri, corpi mutilati e in decomposizione, ma ciò che più suscita disgusto è il desiderio del male di cui il poeta si sente pervaso, la voglia di succhiare veleno dalle prostitute malate per poi vendicarsi su colei che è troppo gaia e «castigare la [sua] carne gioiosa,/ il seno martoriare e una ferita nel fianco spaziosa/ e profonda scavare»,8 il desiderio di oltraggiare e vilipendere  tutto ciò che capita sotto tiro, sia esso colpevole o innocente. Carogne e carcasse, dalla cui carne martoriata esalano fetore e puzzo immondi e in cui le mosche trovano terreno fertile da infettare di fiumi di larve, sono spesso protagoniste dei lirismi baudelairiani e delle sue manifestazioni d’amore; e il poeta non esita a così dichiararsi:

[…] In effetti,
se la crema del Male andiamo
a cercare e un mostro perfetto,
ebbene, vecchio mostro t’amo!9

Questo mondo letterario popolato da malvagità, crudeltà e crudezza di visione che funge da specchio deformante per la realtà è delineato anche dall’immaginazione di Lautréamont che nel 1868 pubblica Les Chants de Maldoror. L’opera è un poema lirico, che vede come protagonista il giovane Maldoror, allegoria del Male, che si trova a perpetuare un’efferata rivolta contro Dio, la società e l’intero consorzio umano; una rivolta che però si fa carica di ironia e sarcasmo al punto da divenire vera e propria derisione per tutto ciò che vi è narrato. Il giovane, sempre ammiccando e insieme schernendo il lettore, dopo aver descritto atrocità cruente e sacrileghe, così deplora se stesso: «Non bisogna che gli occhi siano testimoni della bruttezza che l’Essere supremo, con un sorriso di odio potente, ha depositato su di me».10
Il percorso compiuto da Maldoror lo fa sprofondare negli anditi più reconditi dell’inconscio, avviluppandolo nelle pieghe blasfeme e dissacranti della più turpe miseria umana e il ritmo del suo andare è scandito da vulgate di questa sorta:

Potrei, prendendoti la testa tra le mie mani con un’aria carezzevole e dolce, affondare le mie dita avide dentro i lobi del tuo cervello innocente, per estrarne, col sorriso sulle labbra, un grasso efficace, che lavi i miei occhi, indolenziti dall’insonnia eterna della vita. Potrei, cucendo le tue palpebre con un ago, privarti dello spettacolo dell’universo, e metterti nell’impossibilità di trovare la tua strada; non sarò certo io a farti da guida.11

I canti presentano un susseguirsi di situazioni paradossali e assurde, di inaudita violenza, di trasformazioni fantastiche dei corpi e delle fisionomie, di scene raccapriccianti e nauseabonde, il tutto inframmezzato da momenti di puro lirismo e di profonda riflessione, la cui combinazione crea una contraddizione bizzarra. I grotteschi nonsense che si presentano nell’opera fanno trapelare la sardonica e beffarda presa di distanza dell’autore, che proprio perché è sceso così a fondo nella descrizione dell’orrore si trova investito della facoltà di deriderlo e quindi di neutralizzarlo, sventandone i pericoli attraverso uno sferzante humor noir.
Lo stesso umorismo burlesco che si ritrova nella Danza macabra di Baudelaire, in cui uno scheletro, personificazione della Morte, si trova a danzare tutto adornato e con aria sorniona tra gli uomini smaniosi e un po’ frastornati.

[…] Gli occhi sono profondi come tenebre e fossa,
il cranio, che di fiorino bel gusto è adornato,
oscilla mollemente su quelle fragili ossa.
O fascino d’un nulla follemente agghindato!

Per qualcuno sei solo una caricatura:
ubriaco della carne, costui non può vedere
l’eleganza ineffabile dell’umana armatura.
Corrispondi, alto scheletro, al mio gusto più vero.

Vieni forse a turbare con la smorfia potente
la festa della Vita? O un desiderio punge
estremo e vano, ancora, la carcassa vivente
e al sabba del Piacere te credula sospinge?
[…]
Ma queste tue moine non avranno clienti:
non sono ripagate del loro gran fervore.
Chi capisce lo scherzo tra gli esseri viventi?
Conquista solo i forti l’incanto dell’orrore.
[…]
In ogni clima, in ogni dove la Morte vede,
Umanità risibile, la tua irrequietezza,
e spesso, profumata di mirra, con te incede,

la sua ironia unendo alla tua insensatezza.12

1. A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, in Poesie e prose, a cura di D. Grange Fiori, Mondadori, Milano, 2009, p. 211.
2. Cfr. C. Baudelaire, I fiori del male, a cura di A. Prete, Feltrinelli, Milano, 2010, Le litanie di Satana, pp. 259-263.
3. Ivi, Incisione fantastica, p. 155.
4. Ivi, Il viaggio, p. 281.
5. Ivi, L’irrimediabile, p. 173.
6. Ivi, Il coperchio, p. 293.
7. Ivi, Ossessione, p. 165.
8. Ivi, A colei che è troppo gaia, p. 321.
9. Ivi, Il mostro, p. 337.
10. Lautréamont, I canti di Maldoror, trad. it. di N. M. Buonarroti, a cura di L. Colombo, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 12.
11. Ivi, p. 42.
12. C. Baudelaire, I fiori del male, cit., Danza macabra, pp. 209-211.

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