È
sempre
difficile trattare di una tematica tanto vasta e così differentemente
declinata come è quella dell’horror, soprattutto per
chi, come me, non ne è particolarmente
attratto. Mancando, dunque, di competenze adeguate per poter anche solo
azzardare possibili riferimenti cinematografici, ho scelto, come battesimo del
fuoco alla “Bottega della
Pecora”, di proporre, a
chi volesse seguirlo, un breve attraversamento di due testi classici a me più familiari: il Prometeo
incatenato di Eschilo e il Frankenstein di Mary Shelley. Il fine sarà quello di mostrare
e, possibilmente, problematizzare, in una sorta di scheletrica genealogia, il fil
rouge costituito dalla relazione che tiene insieme l’oltrepassare la
misura e l’emergere dell’orrore che lega le
due opere e che oggi soggiace ancora in parte alla nostra idea di horror.
Che la tragedia eschilea,
probabilmente composta e rappresentata nella prima metà del V secolo a.C.,
costituisca la sua azione drammatica proprio intorno alla coppia concettuale
poco fa indicata è chiaro sin dai
primi versi recitati:
[…]
Perché lui ha rubato il
fuoco per darlo agli uomini: il tuo splendido fuoco, origine di ogni arte e di
ogni tecnica. Deve pagare per questo crimine. Così imparerà a rispettare il potere di Zeus e la
smetterà di aiutare gli
uomini.[1]
Il titano Prometeo ha rubato il
fuoco, appannaggio esclusivo degli dei, per farne dono ai mortali
contravvenendo così ad un esplicito
ordine di Zeus, novello signore degli dei olimpici, che glielo aveva proibito: è evidente come il
titano, ribellandosi al comando, abbia infranto l’ordine e la misura che Zeus, vinta la
guerra con il padre ed innalzatosi a nuovo garante della regolarità del cosmo, aveva
istituita. La pena, nonostante l’aiuto
che il titano aveva offerto a Zeus nella sua lotta parricida, non può che essere
orribile, terrificante ed esemplare: non si è,
infatti, disobbedito semplicemente al decreto di un signore, di un re che,
quindi, desidera vendicare la sua sovranità;
più grave è che l’azione abbia
infranto l’ordine supremo che
mette in forma il cosmo, strappandolo al caos che era invece presente al tempo
della guerra tra dei e titani, di cui Zeus è fautore
e garante. E poiché infrangere la
misura suprema richiede una punizione supremamente terribile, Prometeo viene
incatenato ad una rupe ai confini del mondo dove, per il resto dell’eternità, sarà sottoposto ai più orribili supplizi
che, sebbene non rappresentabili in scena, Eschilo riesce a presentificare
efficacemente nella loro pallida e livida enormità:
[…]
il padre Zeus, con il tuono e il fuoco del fulmine, manderà in frantumi questo
strapiombo e ti seppellirà sotto la roccia,
stretto ad un abbraccio di pietra. Alla fine, dopo molto tempo, tornerai alla
luce. E allora il cane alato di Zeus, l’aquila
assetata di sangue, ti farà a
brandelli. E come sarà ingorda! Verrà tutti i giorni
senza invito a banchettare, a divorarti il fegato fino a fartelo nero. Non
aspettarti una fine per questo tormento.[2]
Solo un dolore così smisurato, infatti,
può riparare l’offesa di chi ha
cercato di attentare alla più sacra
di tutte le misure, la legge di Zeus, padre degli dei.
Il salto temporale, lungo più di due millenni,
che collega questo desolante paesaggio di sofferenze inumane con la Ingolstadt del XVII secolo, la
cittadina tedesca in cui prende corpo la vicenda del giovane dottor Victor
Frankenstein, appare certamente quantomeno azzardato: a suggerire, tuttavia,
che tra la tragedia di Eschilo e il romanzo inglese, che prenderemo ora in
considerazione, esista un legame è la
stessa autrice Mary Shelly. Quando, nel 1818, la poco più che ventenne
scrittrice inglese dà alle stampe il suo
romanzo, nato grazie alla giocosa proposta di lord Byron, sceglie come titolo
per la suo opera Frankenstein, o il moderno Prometeo. Che sin dal titolo
si faccia riferimento al titano greco di cui abbiamo sinora trattato orienta in
senso positivo la ricerca della struttura che, come nella tragedia eschilea,
tiene insieme l’orrore con la
perdita della misura. Il ruolo di protagonista, prima di Prometeo, è ora svolto dal
giovane e promettente dottor Victor Frankenstein: nato e cresciuto a Ginevra in
un’ottima famiglia, il
giovane Frankenstein, da sempre appassionato di alchimia e medicina, si
trasferisce a Ingolstadt in seguito alla repentina e dolorosa perdita della
madre per ampliare i suoi studi alla filosofia naturale con un unico
obbiettivo, quello di riportarla in vita. Le conseguenze, come è facile presagire,
saranno tragiche: l’esperimento che
annulla il confine assoluto che si erge tra la vita e la morte, tra l’al di qua e l’al di là, genera un’aberrazione, un
mostro, un demone, come dice lo stesso Frankenstein[3], che porterà la vita del giovane
dottore al tracollo. Come nella dramma prometeico, anche Mary Shelley traccia,
dunque, una parabola che ha i suoi fuochi nel superamento di un limite
costitutivamente invalicabile e nell’orrore
tremendo che a causa di quell’atto
si scatena.
Il nostro breve percorso
sembrerebbe, dunque, essere giunto alla sua conclusione: è stato mostrato,
infatti, come il nesso che tiene uniti da una parte la trasgressione dei limiti
e dell’altra l’emersione della
catastrofe orrifica e atroce attraversi e caratterizzi entrambi i testi da noi
presi in analisi. Eppure qualcosa che valga la pena di essere preso in
considerazione ancora c’è e si tratta della
differenza che intercorre tra i due sistemi di pensiero in cui la dinamica
osservata si situa. Perché se è vero che tanto
Prometeo quanto Frankenstein oltrepassano un confine che è loro comandato come
invalicabile scatenando così i
più tragici orrori, è, invece,
radicalmente differente l’orizzonte di senso
in cui l’azione di cui essi
sono autori si colloca. Se, nella vicenda del dottor Frankenstein, è relativamente
evidente come l’atto di creare una
vita a partire dalla morte si configuri come equivalente dell’atto del dio
onnipotente che nel nulla assoluto dice «Sia
la luce!»[4] e, quindi, come la
colpa del dottor Frankenstein ricalchi il crimine che Adamo compie mangiando
dall’albero della
conoscenza e, implicitamente, cercando di sostituirsi a Dio, la tragedia di
Prometeo risulta più oscura e di
difficile interpretazione. Prometeo, infatti, è letteralmente “colui che sa prima”[5]:
[…]
Il futuro io lo conosco in tutti i suoi particolari: nessun male mi arriverà inaspettato.[6]
[…]
Tutto questo io lo sapevo bene, e l’ho
voluto, ho voluto macchiarmi di questa colpa.[7]
Come più volte ricordato
durante il corso di tutta la la tragedia, Prometeo conosce quali saranno gli
sviluppi futuri della vicenda e, soprattutto, sapeva in anticipo quali
sarebbero state le conseguenze del suo agire: eppure, a dispetto della tremenda
punizione che sa già di dover ricevere,
il titano ruba comunque il fuoco e ne fa dono agli uomini. Perché? Non perché mosso da un innato
senso di filantropia. Nemmeno perché (come,
invece, riterrà tutta la
generazione di romantici a cui anche Mary Shelly appartiene) incapace di
sottomettersi ai comandi del despota celeste Zeus. Lo fa perché sa che è suo destino
compiere qual gesto, perché sa
che è necessario farlo.
Bisogna che io sopporti il destino
meglio che posso, perché, lo so, non si può lottare contro la
forza di Ananke, non si può lottare
con la Necessità.[8]
La Necessità, il Destino, l’ineluttabilità che tiene unita,
nella sua reciproca e necessaria successione, la totalità degli eventi,
Ananke è la vera
protagonista del dramma eschileo: come ideale cerchia delle cerchie, è solo al suo interno
che tanto Zeus quanto Prometeo trovano la loro collocazione e il loro senso. La
disobbedienza di Prometeo che di primo acchito era allora apparsa come un
attentato all’ordine di cui Zeus
si ergeva a garante riceve qui un altro significato: Prometeo infrange il
comando celeste perché accetta e riconosce
come il suo destino la necessità che
per lui è prevista e cui Zeus
stesso deve piegarsi, come testimonia il suo affanno per scoprire il senso
delle parole profetiche che il titano gli rivolge. A differenza dell’esperimento del
dottor Frankenstein che, spezzando il limite imposto da Dio tra la vita e la
morte, si proietta idealmente nel nulla che precede la creazione, il furto del
fuoco porta Prometeo ad infrangere l’ordine
di Zeus ma, al tempo stesso, a rispettare l’ordine
della Necessità che rende possibile
ogni altro ordine: in ultima istanza, l’azione
di Prometeo è sicuramente
delittuosa ma, proprio perché inscritto
in un orizzonte di senso e di razionalità più grande, l’orrore che si
scarica sul titano riceve comunque una significazione che lo rende
giustificato. Per dirla con le parole di Nietzsche, nel Prometeo, si
comprende che per i Greci
tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto,
e in entrami i casi ugualmente giustificato. Questo è il tuo mondo!
Questo significa un mondo![9]
[1] Eschilo, Prometeo, traduzione
e cura di Davide Sussanetti, Feltrinelli 2010, vv 6-11.
[2] Ivi, vv 1016-1025.
[3] Mary Shelley, Frankenstein,
traduzione di Luca Lamberti, Feltrinelli 2011, pag. 227.
[4] Genesi 1, 3.
[5] Prometheus è ricavato dalla composizione della preposizione pro e del
verbo manthano che rispettivamente significano “prima” e “imparare,
apprendere, sapere”.
[6]Eschilo, Prometeo incatenato,
vv 101-103.
[7] Ivi,vv 266-267.
[8] Ivi, vv 103-105.
[9] Friedrich Nietzsche, La Nascita
della Tragedia, Adephi 2012, pag. 71.
[Inconseguenza e necessità Che cosa ci dicono Prometeo e Frankestein?] In questo breve e molto corretto scritto del bottegaio Centanini ne abbiamo avuto un esempio eclatante, in ordine al rapporto tra diritto e oscenità. Se ci permettiamo di intervenire quindi, non è per invalidare il lavoro di un compagno, ma per dar corpo ad una variazione rispetto alla pratica testè svoltasi sulla nostra piattaforma, con il fine di sviluppare una tematica che ci ha particolarmente avvinti. Vorremmo rompere così i limiti delle pretese “individualità dotate di profilo concettuale definito”. Che ognuno produca il proprio intervento come in un'officina dove infine tutto viene organizzato in un prodotto coerente e organico, non credo ci interessi poi molto. Proprio per questo credo sia interessante farsi prendere dall'argomentazione del bottegaio Centanini e sviluppare quanto egli cavalca senza prendere in esame, dato che quanto segue non era il suo obiettivo argomentativo, per vedere che effetto può produrre quest'incontro. Molto brevemente, quanto emerge sotto il significante “necessità” come modo di ciò che è e non può non essere, credo possa brevemente essere espresso proprio nella forma di un'intempestività fatale che Prometeo e Frankestein ci segnalano. Cosa ci dice lo sguardo profondo di Prometeo se non che, quanto sarà poi ciò che nella serie delle determinazioni doveva emergere come necessario, era già prima effettivo come l'anticipazione di ciò in forza di cui quest'anticipazione può dirsi tale, ovvero il risultato, come effetto di verità interno ad un discorso? Prometeo conosce l'ordine della necessità, schematizzando potremmo dire x = a, b, c, ma sa anche che quest'ordine oggettivato in un saputo, dipende anche dal suo intervento b, ovvero l'azione delittuosa. Con Prometeo possiamo quindi dire che l'intervento consaputo, la volontà, in realtà è funzione di quanto la rende tale all'interno di una serie, un ordine e proprio per questo essa non può dirsi tetica, di per sé genetica. La nostra azione o ipotesi di conoscenza è una y che solo nell'ordine di x diventa una b. Quanto però Prometeo come personaggio mitico ci dice è anche che quest'ordine non è un saputo in mano a coloro che chiamiamo uomini, non è qualcosa di determinato nell'ordine della causa e dell'effetto (noi quando agiamo o produciamo un'ipotesi siamo nell'ordine della y, non di b, in quanto b è tale solo all'interno di x. Se x però è quanto risulta, allora a, b, c li conosceremo solo alla luce di quanto attraverso y ha prodotto la serie x, dove però y è sempre b, solo non consapevolmente. Quanto è necessario è x). E' in questo punto quindi che Frankestein ci dice qualcosa, potremmo infatti dire che il suo sbaglio è quello di potersi concepire nell'ordine della causa creatrice, cosa che lo sottopone alla dialettica per cui se la causa è ciò tolto cui si toglie l'effetto, allora bisogna pur dire che l'effetto è ciò in forza di cui la causa è causa e quindi l'effetto può dirsi causa della causa e causa l'effetto dell'effetto. Il suo stesso concepirsi come causa lo sottopone ad un ordine di legalità per cui la sua unilateralità y lo fa scontrare con un ordine in cui si è sempre inseriti, ovvero x, che nel mostruoso essere altro non mostra che l'opposto perverso implicito in quest'ordine di possibilità e impossibilità che potremmo definire simbolico. Più in la di Prometeo però Frankestein ci dice che y, l'azione, l'ipotesi, si determina sempre alla luce di quanto la determina come causa all'interno di una serie di cause. Emerge quindi un'intempestività secondo cui il dopo è causa del prima che lo causa, in una dinamica tragica di inconseguenza che nella modernità emerge con tutta la sua carica angosciosa e che attraverso i greci possiamo riconoscere come tempo di scansione della necessità.
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