mercoledì 8 aprile 2015

Horror vacui e metonimia: la lettura fortunata



Data l'eccessiva intensità di un certo tono da predicatore presente nel mio articolo, uscito dal laboratorio della nostra bottega la scorsa volta, ho pensato per quest'uscita di non dedicarmi a ricostruzioni dal sapore malcelatamente etico (chi ne ha il diritto poi?), ma di concentrarmi su di un piccolo problema, che mi sembra però di grande interesse.
Mi scuseranno gli amanti dell'horror se per questo mio articolo quindi, derubricherò il tema suddetto al ruolo di accidente, per concentrarmi invece, attraverso esso, a che cosa voglia dire fare una lettura fortunata.
Mi spiego: capiterà a tutti di passare ore a scorrere le pagine non “cavando un ragno dal buco”, oppure affaticandosi nella certosina ricostruzione delle argomentazioni affrontate, permanendo però in uno stato di estraneità da esse, come se non si riuscisse a collocarle in un contesto organico di riferimenti, pur distinguendone alcuni contorni.
In certe occasioni, quanto chiamiamo appunto lettura fortunata, ci si trova invece come rapiti, sbalzati in avanti, come scorsi da una corrente per cui tutto quello che prima pareva nero, o mestamente incolore, si ravviva di molte tinte e inizia a parlarci.
Come sia possibile tutto ciò è quanto vorremmo tentare di indagare brevemente, premettendo il fatto che il seguente scritto vuole avere lo statuto di un tentativo e di un esercizio. Di conseguenza prego chiunque trovi falle o scorrettezza di rendermene partecipe.
Per esplicare questa dinamica, ovvero la differenza tra lettura semplicemente informativa e lettura fortunata, tratterò del racconto di Poe intitolato Berenice, a cui rimando il lettore1.
Da questo racconto si è scossi e rapiti assieme dalla violenza espressiva e dalla fine architettura che l'autore vi ha innervato.
Se Poe infatti si sofferma prima su considerazioni che paiono estrinseche e atte soltanto a creare un atmosfera barocca e oppiacea assieme, termina invece la sequenza finale con l'emersione ritmica e nervosa di una serie di indizi che rapidamente ci fanno pervenire al luogo d'orrore, dove troviamo il nostro appagamento di lettori.
Ma questo come accade? Credo si possa rispondere attraverso la riscoperta di quanto è espresso en passant nelle prime battute, quando Poe parla degli avi, della madre e della biblioteca, serie senza la quale non si chiarifica minimamente la coazione a ripetere che, in luogo dei denti, sposta il protagonista dalla posizione di fantasticatore a quella di carnefice.
La cosa fondamentale da tener presente è che esso presenta la propria mania come un “fantasticare infaticabile per lunghe ore con l'attenzione fissa su qualche frivolo fregio marginale, o su qualche anomalia tipografica di un libro...”2, continuando poi a descrivere le sue speculazioni come infruttuose, inconcludenti, mai piacevoli e frivole.
A ciò si lega il suo presentare le proprie attenzioni per Berenice come puramente intellettuali, mai guidate dal cuore, cosa che ritroveremo poi nel momento dell'orrore.
Infatti il nucleo delirante che accende la follia del protagonista è la sconvolgente vista dei bianchi e perfetti denti di Berenice, trauma che esprime modificando la frase di Madmoiselle Salle que tous ses pas étaient des sentiments con que toutes ses dents étaient des idées, ma questo cosa ci dice?
La soluzione non emerge immediatamente, in quanto siamo rapiti non solo dal movimento del racconto che velocemente ci avvicina al tragico epilogo, ma anche dall'emergere di una struttura che ci richiama alla primarietà assunta dal ruolo dei denti, struttura che però si rivela parziale all'esame.
Possiamo infatti subitamente istituire due serie: 1) Berenice giovane e piena di vita – Berenice malata, cadaverica, spettrale; 2) Berenice sepolta – Berenice ancora viva, ma mutilata.
Siamo immediatamente proiettati in una contraddizione per cui i denti arrivano ad essere rappresentanti da un lato di pienezza e vita dinnanzi al malato, e dall'altro simboli di morte, di mutilazione, ma che contemporaneamente mostrano lo spazio di un corpo vivo, sfigurato, ma vivo.
I denti si mostrano quindi quell'elemento circolante e differenziale che innerva l'intera struttura nella sua logica intersoggettiva, la quale coinvolge lo stesso protagonista.
E' infatti la posizione assunta rispetto ai denti che dispone il luogo occupato da ogni personaggio, ma qui ci troviamo dinnanzi ad una impasse: che ruolo ha il protagonista? Prima monomaniaco e poi carnefice, ma come spiegarlo? Ci manca evidentemente una componente seriale, segnalata dalla frase delirante sopra citata: “che tutti i suoi denti erano idee”, a cui Poe fa seguire il commento che ci porta presso quanto cerchiamo: “Sentivo che soltanto il loro possesso [dei denti] poteva ridonarmi la pace, restituirmi la ragione”3.
I denti non hanno alcuna attinenza con la bellezza di Berenice e l'eros (il protagonista ci informa anche della suo inesistente interesse per quest'ambito), ma sono quel significante che per lui può assicurare una presa definitiva e completa sul reale: possono calmare l'inquietudine della sua coscienza attenta.
Ci dobbiamo però chiedere ora da dove arrivi questa necessità per il protagonista, e la troviamo proprio nell'incipit del racconto dove parla della sua stirpe: una stirpe di visionari e fantasticatori, raccoglitori di oscure saggezza ed erudizione. Una stirpe dalla quale è come se egli rimane escluso, abbandonato, tagliato fuori dal punto di vista della parentela diretta (“quivi morì mia madre. Qui io nacqui”4), ma a cui resta legato grazie alla cugina Berenice e la biblioteca, dove il protagonista pronuncia le parole appena citate e dove rinchiude la propria vita.
Che la sua inquietudine sia il tentativo ossessivo di pervenire ad una pienezza incontraddittoria che lo ricollochi in seno alla sua stirpe, mi sembra un'ipotesi sostenibile e ne seguirebbe che quindi le fantasticherie che rappresentano “non l'elemento materiale della mia vita quotidiana, ma veramente e propriamente la mia sola unica vera vita”5, dice il protagonista, siano la ripetizione coatta dello stesso distacco traumatico che ha inaugurato la sua coscienza.
La reiterazione del distacco è lo stesso tentativo contraddittorio di richiuderlo.
Si capisce quindi come questa pretesa conoscenza di una totalità conchiusa, che possiamo ora chiamare idee, rappresenti contemporaneamente sia la vita piena e compiuta per la finitezza, la degenza del protagonista, sia la rottura della struttura stessa della sua coscienza in una fissità mortifera.
Due serie quindi: 1') Stirpe e pienezza di conoscenza – protagonista degente e angosciato; 2') possesso preteso di una conoscenza conchiusa, identità con la stirpe – psicosi, totale perdita del contatto con la realtà e con sé stesso6.
Si vede come i denti-idee7 rappresentino quindi quell'elemento metonimico che nei suoi movimenti rende possibile la mediazione tra le serie e arrivi quindi a svelare, almeno a questo livello, la struttura immanente al racconto.
I denti di Berenice sono lo spettro della sua bellezza perduta e perciò idealizzata. Nel protagonista tale dinamica prende corpo nelle idee, come spettri di una conoscenza particolare che possa spiegare tutto, un significante piegato ad un significato ulteriore e unitario, il quale, se perseguito, non può che avere l'effetto di un'astrazione, una cesura estraniante, una distruzione che lascia vedere il corpo in frammenti8.
Quest'ultimo è infatti quella traumatica e incessante incidenza di un non legislabile all'interno di un insieme legale, che costantemente forza quest'ultimo ad elaborarsi, ma che qualora fosse affrontato in maniera unilaterale e con la finalità di impedire questo stesso movimento incessante, il ripresentarsi cioè del traumatico, non potrebbe produrre altro che la distruzione del soggetto e del discorso, della struttura9.
Possiamo ora cercare di trarre una conclusione a riguardo di quanto ci interrogava a riguardo della lettura: cos'è infatti che ci permette di fare una lettura fortunata? E che conseguenze -purtroppo soltanto immediate dato il luogo- possiamo trarne?
Una lettura si può dire fortunata quando si è catturati da un elemento, che prima definivamo differenziale, e che ci pone all'interno di un incontro che non lascia più nulla come prima. Un elemento che ci si mostra per uno scarto rispetto ad una serie, come qualcosa di frivolo, marginale, magari come un'anomalia. Quest'incontro è già un movimento10, dove una serie, entrando in relazione con una seconda serie, sviluppa una significazione differente dalla precedente e che non era possibile al di fuori di quest'incontro. Un movimento dove siamo spinti a capirci qualcosa, spinta che però, ora ci si presenta come una necessità ineludibile: nel vuoto del sapere precedente siamo costretti a trovare il nuovo11. Ed è seguendo questa corrente che ci si trova ad avere in mano qualcosa di effettivamente nuovo e imprevisto.
Ad interessarci qui è la messa in luce del registro in cui siamo inseriti che è quello del significante, ovvero di quanto rappresenta un soggetto per un altro significante12, di quanto ha la proprietà di essere traducibile. Un significante non è un contenitore di significato, ma il termine di una relazione dove soltanto la messa in forma complessiva di quest'ultima, può dar luogo alla significazione dei termini della relazione, i quali, a questo punto, significano qualcosa per l'altro e di per sé sono muti. Con ciò emerge l'insostenibilità della primarietà di qualsiasi identità analitica13, ma questo cosa implica per il nostro discorso se non il fatto che quanto distrugge il nostro protagonista è la condizione stessa per cui noi possiamo fare una lettura fortunata?
Quanto il Poetagonista vuol sopprimere è l'incidenza di un termine esterno ad una serie all'interno di quella stessa serie rispetto a cui è esterno, ovvero la metonimia.
Struttura che rappresenta il legame tra l'irriducibilità del significante ad un significato unitario, ovvero quanto si palesa nell'angoscia, nella perdita di un oggetto che si possedeva in maniera pretesa compiuta e il potere vivificante il senso che questo movimento produce su di un testo14: il vuoto è condizione di possibilità del movimento genetico di cui ogni tanto si fa esperienza nel linguaggio.
E proprio la quantità di rifermenti dati in questo nostro breve testo, non volevano essere esemplificazioni (individui sussumibili ad una differenza specifica) o ritrovamento di analogie (identità di rapporti che rimangono delle identità stabili fuori dal loro rapporto), ma piuttosto il tentativo di procedere seguendo le tracce di una possibile lettura fortunata (chissà se ci siamo riusciti?) per noi e per chi legge.
Questo però pone il problema, che non possiamo affrontare ora, su quale sia la legge che queste serie producono, quale sia la distinzione tra discorsi (filosofico, letterario, psicoanalitico, cinematografico, ecc...) che si rende necessario esplicare per non cadere nell'indistinzione.
Come disporsi rispetto allo scarto tra le nostre serie? Ma su questo problema della metafora, rimandiamo oltre questo brave esercizio.
1Non per pigrizia evito di dilungarmi in un riassunto, ma per questioni di spazio. Per altro il racconto non consta nemmeno di dieci facciate, il che rende la lettura oltre che molto piacevole e stimolante per la maestria di Poe, anche molto veloce.
2E. A. Poe, Racconti, a cura di Giorgio Manganelli, ed. BUR, Milano 1999, pp. 281-282.
3Ivi, p. 286.
4Ivi, p. 279.
5Ivi, p. 280.
6La follia irrompe violenta quanto il protagonista ritiene morta Berenice: altro distacco dalla parentela e altro tentativo (ora reale come la perdita -pretesa- della parente) di prendere per sé un significante totalizzante: non più fantasticheria, ma violenza. Il distacco diventa vera e propria mutilazione.
7O, scimmiottando Carroll, si potrebbe dire ideenti. Par infatti essere proprio questo movimento incessante, quanto muove il procedere di Carroll, il quale lo esplicita ad esempio dei portmanteau (L. Carroll, Through the Looking Glass, Collins classics, London 2010, p. 85), ovvero in quei neologismi dove sono condensati termini che così facendo intersecano serie differenti, dando luogo a creazioni linguistiche e concettuali complesse.
8Non solo quello del protagonista nel suo stato psicotico, ma letteralmente anche il corpo sfigurato di Berenice.
9La più alta rappresentazione di questa dinamica è ovviamente la tragedia classica: un es. per tutti è rappresentato dalle Baccanti euripidee di cui tratta questo mese il bottegaio De Vecchi, oppure dalla Medea dello stesso tragediografo, dove il tentativo di Giasone di piegare alle necessità dell'eugeneia, tutta maschile, la logica femminile del legame matrimoniale, non può che porre ad effetto una totale distruzione della stirpe e l'emergere della thumos femminile come incomprimibile forza ferina, non più umana (Medea infatti, nell'ultimo atto compare sulla mechanè, il luogo del dio nella messa in scena, e narrativamente, se ne va sul carro del suo antenato, il Sole). Fondamentale è mettere in luce che proprio la messa in scena di queste unilateralità, era la maniera greca per elaborarle senza farsene travolgere.
10Non siamo lontani dal movimento dell'Erfahrung hegeliana, dove da un rovesciamento si irradiano una serie di redistribuzioni semantiche che mutando figura o momento, modificano lo statuto della coscienza per la quale quelle figure e quei momenti erano presenti.
11Possiamo a buon diritto definire questo movimento come genetico e trascendentale, in quanto pone a tema costantemente il nostro modo di riferirci all'oggetto, in modo che tale performazione del sapere sia la produzione di risposte adeguate al problema che di volta in volta ci si presenta. Risposte che non possono esser presupposte, ma van prodotte (il trovare di cui parlavamo appena sopra) nel medesimo esercizio della loro deduzione. Sul problema del rapporto tra trovare e produrre, come movimento genetico, siamo però costretti a rimandare ad una futura interrogazione.
12J. Lacan, Il seminaio, libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, p.193.
13Più rigorosamente si potrebbe dire che se indaghiamo le condizioni di possibilità di A, ovvero che A=A, dovremmo dire che A dev'essere posto, ovvero A va tradotto “se A allora A“, o ancora “A dev'essere posto, rappresentato ad A”. Se poniamo “se A allora A”=X, dovremmo dire che condizione di possibilità di A=A è X=X: l'identità che si scopre è solo quella di un movimento di corrispondenze, un autorifermento semanticamente vuoto i cui prodotti sono le significazioni, le identificazioni che cerchiamo e che quindi si dimostrano come derivate e non principi; si potrebbe altrimenti dire che se l'identità di cui parliamo è il ritrovare A rappresentato per A, allora potremmo anche tradurre A=A come prodotto del movimento A X A e il risultato sarebbe lo stesso. Con ciò abbiamo mostrato che per pensare un identità (un nucleo semantico determinato), questa deve risultare da una relazione di corrispondenza tra due termini di per sè semanticamente vuoti ( )= ( ), come vuoto è il nome per questo movimento, X.
14Quanto par esprimere meglio di altro il legame tra angoscia e struttura significante è la scena di The Birds di A. Hitchcock dove i due grandi conflitti del film si legano e si vivificano l'un l'altro ovvero la scena dove Lydia, la madre di Mitch, scopre il cadavere dell'agricoltore ucciso dagli uccelli. Qui Lydia, stravolta, non riesce a gridare: diventa afona. E' lo stesso orrore che ammutolisce l'ornitologa che, dopo l'attacco al paese, trova il suo sapere etologico completamente distrutto, annullato. Non c'è modo di esprimere questo vuoto travolgente, derivato dalla modificazione delle relazioni che innervavano il precedente sapere, se non con l'afonia. Così Lydia, condensa in sè l'angoscia dovuta al pericolo ornitologico, all'angoscia che essa rappresenta nell'ambito familiare, dove gelosamente cerca di allontanare ogni pretendente dal figlio, divenuto sostituto del marito deceduto, tentando di preservare quel poco di ordine che la sostiene. In luogo dell'angoscia, come componente della struttura dinamica della significazione, il film quindi acquista significazione sia da un punto di vista drammatico che strutturale.

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