Data l'eccessiva
intensità di un certo tono da predicatore presente nel mio articolo,
uscito dal laboratorio della nostra bottega la scorsa volta, ho
pensato per quest'uscita di non dedicarmi a ricostruzioni dal sapore
malcelatamente etico (chi ne ha il diritto poi?), ma di concentrarmi
su di un piccolo problema, che mi sembra però di grande interesse.
Mi scuseranno gli
amanti dell'horror se per questo mio articolo quindi, derubricherò
il tema suddetto al ruolo di accidente, per concentrarmi invece,
attraverso esso, a che cosa voglia dire fare una lettura
fortunata.
Mi spiego: capiterà
a tutti di passare ore a scorrere le pagine non “cavando un ragno
dal buco”, oppure affaticandosi nella certosina ricostruzione delle
argomentazioni affrontate, permanendo però in uno stato di
estraneità da esse, come se non si riuscisse a collocarle in un
contesto organico di riferimenti, pur distinguendone alcuni contorni.
In certe occasioni,
quanto chiamiamo appunto lettura fortunata, ci si trova invece
come rapiti, sbalzati in avanti, come scorsi da una corrente per cui
tutto quello che prima pareva nero, o mestamente incolore, si ravviva
di molte tinte e inizia a parlarci.
Come sia possibile
tutto ciò è quanto vorremmo tentare di indagare brevemente,
premettendo il fatto che il seguente scritto vuole avere lo statuto
di un tentativo e di un esercizio. Di conseguenza prego chiunque
trovi falle o scorrettezza di rendermene partecipe.
Per esplicare questa
dinamica, ovvero la differenza tra lettura semplicemente informativa
e lettura fortunata, tratterò del racconto di Poe intitolato
Berenice, a cui rimando il lettore1.
Da questo racconto
si è scossi e rapiti assieme dalla violenza espressiva e dalla fine
architettura che l'autore vi ha innervato.
Se Poe infatti si
sofferma prima su considerazioni che paiono estrinseche e atte
soltanto a creare un atmosfera barocca e oppiacea assieme, termina
invece la sequenza finale con l'emersione ritmica e nervosa di una
serie di indizi che rapidamente ci fanno pervenire al luogo d'orrore,
dove troviamo il nostro appagamento di lettori.
Ma questo come
accade? Credo si possa rispondere attraverso la riscoperta di quanto
è espresso en passant
nelle prime battute, quando Poe parla degli avi, della madre e della
biblioteca, serie senza la quale non si chiarifica minimamente la
coazione a ripetere che, in luogo dei denti, sposta il
protagonista dalla posizione di fantasticatore a quella di carnefice.
La cosa fondamentale
da tener presente è che esso presenta la propria mania come un
“fantasticare infaticabile per lunghe ore con l'attenzione fissa su
qualche frivolo fregio marginale, o su qualche anomalia
tipografica di un libro...”2,
continuando poi a descrivere le sue speculazioni come infruttuose,
inconcludenti, mai piacevoli e frivole.
A ciò si lega il
suo presentare le proprie attenzioni per Berenice come puramente
intellettuali, mai guidate dal cuore, cosa che ritroveremo poi nel
momento dell'orrore.
Infatti il nucleo
delirante che accende la follia del protagonista è la sconvolgente
vista dei bianchi e perfetti denti di Berenice, trauma che esprime
modificando la frase di Madmoiselle Salle que tous ses pas étaient
des sentiments con que
toutes ses dents étaient des idées,
ma questo cosa ci dice?
La
soluzione non emerge immediatamente, in quanto siamo rapiti non solo
dal movimento del racconto che velocemente ci avvicina al tragico
epilogo, ma anche dall'emergere di una struttura che ci richiama alla
primarietà assunta dal ruolo dei denti, struttura che
però si rivela parziale all'esame.
Possiamo
infatti subitamente istituire due serie: 1) Berenice giovane e piena
di vita – Berenice malata, cadaverica, spettrale;
2) Berenice sepolta – Berenice ancora viva, ma mutilata.
Siamo
immediatamente proiettati in una contraddizione per cui i denti
arrivano ad essere rappresentanti da un lato di pienezza e vita
dinnanzi al malato, e dall'altro simboli di morte, di mutilazione, ma
che contemporaneamente mostrano lo spazio di un corpo vivo,
sfigurato, ma vivo.
I
denti si mostrano quindi quell'elemento circolante e
differenziale che innerva l'intera struttura nella sua logica
intersoggettiva, la quale coinvolge lo stesso protagonista.
E'
infatti la posizione assunta rispetto ai denti che dispone il luogo
occupato da ogni personaggio, ma qui ci troviamo dinnanzi ad una
impasse:
che ruolo ha il protagonista? Prima monomaniaco e poi carnefice, ma
come spiegarlo? Ci manca evidentemente una componente seriale,
segnalata dalla frase delirante sopra citata: “che tutti i suoi
denti erano idee”, a cui Poe fa seguire il commento che ci porta
presso quanto cerchiamo: “Sentivo che soltanto il loro possesso
[dei denti] poteva ridonarmi la pace, restituirmi la ragione”3.
I
denti non hanno alcuna attinenza con la bellezza di Berenice e l'eros
(il protagonista ci informa anche della suo inesistente interesse per
quest'ambito), ma sono quel significante
che per lui può assicurare una presa definitiva e completa sul
reale: possono calmare
l'inquietudine della sua coscienza attenta.
Ci
dobbiamo però chiedere ora da dove arrivi questa necessità per il
protagonista, e la troviamo proprio nell'incipit del racconto dove
parla della sua stirpe: una stirpe di visionari e fantasticatori,
raccoglitori di oscure saggezza ed erudizione. Una stirpe dalla quale
è come se egli rimane
escluso, abbandonato, tagliato fuori dal punto di vista della
parentela diretta (“quivi morì mia madre. Qui io nacqui”4),
ma a cui resta legato grazie alla cugina Berenice e la biblioteca,
dove il protagonista pronuncia le parole appena citate e dove
rinchiude la propria vita.
Che
la sua inquietudine sia il tentativo ossessivo di pervenire ad una
pienezza incontraddittoria che lo ricollochi in seno alla sua stirpe,
mi sembra un'ipotesi sostenibile e ne seguirebbe che quindi le
fantasticherie che rappresentano “non l'elemento materiale della
mia vita quotidiana, ma veramente e propriamente la mia sola unica
vera vita”5,
dice il protagonista, siano la ripetizione coatta dello stesso
distacco traumatico che ha inaugurato la sua coscienza.
La
reiterazione del distacco è lo stesso tentativo contraddittorio di
richiuderlo.
Si
capisce quindi come questa pretesa conoscenza di una totalità
conchiusa, che possiamo ora chiamare idee,
rappresenti contemporaneamente sia la vita piena e compiuta per la
finitezza, la degenza del protagonista, sia la rottura della
struttura stessa della sua coscienza in una fissità mortifera.
Due
serie quindi: 1') Stirpe e pienezza di conoscenza – protagonista
degente e angosciato; 2') possesso preteso di una conoscenza
conchiusa, identità con la stirpe – psicosi, totale perdita del
contatto con la realtà e con sé stesso6.
Si
vede come i denti-idee7
rappresentino quindi quell'elemento metonimico
che nei suoi movimenti rende possibile la mediazione tra le serie e
arrivi quindi a svelare, almeno a questo livello, la struttura
immanente al racconto.
I
denti di Berenice sono lo spettro della sua bellezza perduta e perciò
idealizzata. Nel protagonista tale dinamica prende corpo nelle idee,
come spettri di una conoscenza particolare che possa spiegare tutto,
un significante piegato ad un significato ulteriore e unitario, il
quale, se perseguito, non può che avere l'effetto di un'astrazione,
una cesura estraniante, una distruzione che lascia vedere il corpo
in frammenti8.
Quest'ultimo
è infatti quella traumatica e incessante incidenza di un non
legislabile all'interno di un insieme legale, che costantemente forza
quest'ultimo ad elaborarsi, ma che qualora fosse affrontato in
maniera unilaterale e con la finalità di impedire questo stesso
movimento incessante, il ripresentarsi cioè del traumatico, non
potrebbe produrre altro che la distruzione del soggetto e del
discorso, della struttura9.
Possiamo
ora cercare di trarre una conclusione a riguardo di quanto ci
interrogava a riguardo della lettura: cos'è infatti che ci permette
di fare una lettura fortunata?
E che conseguenze -purtroppo soltanto immediate dato il luogo-
possiamo trarne?
Una
lettura si può dire fortunata
quando si è catturati da un elemento, che prima definivamo
differenziale, e che ci pone all'interno di un incontro
che non lascia più nulla come prima. Un elemento che ci si mostra
per uno scarto rispetto ad una serie, come qualcosa di frivolo,
marginale, magari come
un'anomalia. Quest'incontro è
già un movimento10,
dove una serie, entrando in relazione con una seconda serie, sviluppa
una significazione differente dalla precedente e che non era
possibile al di fuori di quest'incontro. Un movimento dove siamo
spinti a capirci qualcosa,
spinta che però, ora ci si presenta come una necessità ineludibile:
nel vuoto del sapere precedente siamo costretti a trovare
il nuovo11.
Ed è seguendo questa corrente che ci si trova ad avere in mano
qualcosa di effettivamente nuovo e imprevisto.
Ad
interessarci qui è la messa in luce del registro in cui siamo
inseriti che è quello del significante, ovvero di quanto
rappresenta un soggetto per un altro significante12,
di quanto ha la proprietà di essere traducibile. Un significante non
è un contenitore di significato, ma il termine di una relazione dove
soltanto la messa in forma complessiva di quest'ultima, può dar
luogo alla significazione dei termini della relazione, i quali, a
questo punto, significano qualcosa per l'altro e di per sé
sono muti. Con ciò emerge l'insostenibilità della primarietà di
qualsiasi identità analitica13,
ma questo cosa implica per il nostro discorso se non il fatto che
quanto distrugge il nostro protagonista è la condizione stessa per
cui noi possiamo fare una lettura fortunata?
Quanto
il Poetagonista vuol sopprimere è l'incidenza di un termine
esterno ad una serie all'interno di quella stessa serie rispetto a
cui è esterno, ovvero la metonimia.
Struttura
che rappresenta il legame tra l'irriducibilità del significante
ad un significato unitario, ovvero quanto si palesa nell'angoscia,
nella perdita di un oggetto che si possedeva in maniera pretesa
compiuta e il potere vivificante il senso che questo movimento
produce su di un testo14:
il vuoto è condizione di possibilità del movimento genetico di cui
ogni tanto si fa esperienza nel linguaggio.
E
proprio la quantità di rifermenti dati in questo nostro breve testo,
non volevano essere esemplificazioni (individui sussumibili ad una
differenza specifica) o ritrovamento di analogie (identità di
rapporti che rimangono delle identità stabili fuori dal loro
rapporto), ma piuttosto il tentativo di procedere seguendo le tracce
di una possibile lettura fortunata (chissà se ci siamo
riusciti?) per noi e per chi legge.
Questo
però pone il problema, che non possiamo affrontare ora, su quale sia
la legge che queste serie producono, quale sia la distinzione tra
discorsi (filosofico, letterario, psicoanalitico, cinematografico,
ecc...) che si rende necessario esplicare per non cadere
nell'indistinzione.
Come
disporsi rispetto allo scarto tra le nostre serie? Ma su
questo problema della metafora, rimandiamo oltre questo brave
esercizio.
1Non
per pigrizia evito di dilungarmi in un riassunto, ma per questioni
di spazio. Per altro il racconto non consta nemmeno di dieci
facciate, il che rende la lettura oltre che molto piacevole e
stimolante per la maestria di Poe, anche molto veloce.
2E.
A. Poe, Racconti, a cura di Giorgio Manganelli, ed. BUR,
Milano 1999, pp. 281-282.
3Ivi,
p. 286.
4Ivi,
p. 279.
5Ivi,
p. 280.
6La
follia irrompe violenta quanto il protagonista ritiene morta
Berenice: altro distacco dalla parentela e altro tentativo (ora
reale come la perdita -pretesa- della parente) di prendere per sé
un significante totalizzante: non più fantasticheria, ma violenza.
Il distacco diventa vera e propria mutilazione.
7O,
scimmiottando Carroll, si potrebbe dire ideenti.
Par infatti essere proprio questo movimento incessante, quanto muove
il procedere di Carroll, il quale lo esplicita ad esempio dei
portmanteau (L.
Carroll, Through the Looking Glass,
Collins classics, London 2010, p. 85), ovvero in quei neologismi
dove sono condensati
termini che così facendo intersecano serie differenti, dando luogo
a creazioni linguistiche e concettuali complesse.
8Non
solo quello del protagonista nel suo stato psicotico, ma
letteralmente anche il corpo sfigurato di Berenice.
9La
più alta rappresentazione di questa dinamica è ovviamente la
tragedia classica: un es. per tutti è rappresentato dalle Baccanti
euripidee di cui tratta questo mese il bottegaio De Vecchi, oppure
dalla Medea dello stesso tragediografo, dove il tentativo di
Giasone di piegare alle necessità dell'eugeneia, tutta
maschile, la logica femminile del legame matrimoniale, non può che
porre ad effetto una totale distruzione della stirpe e l'emergere
della thumos femminile come incomprimibile forza ferina, non
più umana (Medea infatti, nell'ultimo atto compare sulla
mechanè, il luogo del dio nella messa in scena, e
narrativamente, se ne va sul carro del suo antenato, il Sole).
Fondamentale è mettere in luce che proprio la messa in scena di
queste unilateralità, era la maniera greca per elaborarle senza
farsene travolgere.
10Non
siamo lontani dal movimento dell'Erfahrung hegeliana, dove da
un rovesciamento si irradiano una serie di redistribuzioni
semantiche che mutando figura o momento, modificano lo statuto della
coscienza per la quale quelle figure e quei momenti erano presenti.
11Possiamo
a buon diritto definire questo movimento come genetico e
trascendentale, in quanto pone a tema costantemente il nostro
modo di riferirci all'oggetto, in modo che tale performazione del
sapere sia la produzione di risposte adeguate al problema che di volta in volta ci si
presenta. Risposte che non possono esser presupposte, ma van
prodotte (il trovare di cui parlavamo appena sopra) nel
medesimo esercizio della loro deduzione. Sul problema del rapporto
tra trovare e produrre, come movimento genetico, siamo però
costretti a rimandare ad una futura interrogazione.
12J.
Lacan, Il seminaio, libro XI, I quattro concetti
fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, p.193.
13Più
rigorosamente si potrebbe dire che se indaghiamo le condizioni di
possibilità di A, ovvero che A=A, dovremmo dire che A dev'essere
posto, ovvero A va tradotto “se A allora A“, o ancora “A
dev'essere posto, rappresentato ad A”. Se poniamo “se A allora
A”=X, dovremmo dire che condizione di possibilità di A=A è X=X:
l'identità che si scopre è solo quella di un movimento di
corrispondenze, un autorifermento semanticamente vuoto i cui
prodotti sono le significazioni, le identificazioni che cerchiamo e
che quindi si dimostrano come derivate e non principi; si potrebbe
altrimenti dire che se l'identità di cui parliamo è il ritrovare A
rappresentato per A, allora potremmo anche tradurre A=A come prodotto del movimento A X A e
il risultato sarebbe lo stesso. Con ciò abbiamo mostrato che per
pensare un identità (un nucleo semantico determinato), questa deve
risultare da una relazione di corrispondenza tra due termini di per
sè semanticamente vuoti ( )= ( ), come vuoto è il nome per questo
movimento, X.
14Quanto
par esprimere meglio di altro il legame tra angoscia e struttura
significante è la scena di The Birds di A. Hitchcock dove i
due grandi conflitti del film si legano e si vivificano l'un l'altro
ovvero la scena dove Lydia, la madre di Mitch, scopre il cadavere
dell'agricoltore ucciso dagli uccelli. Qui Lydia, stravolta, non
riesce a gridare: diventa afona. E' lo stesso orrore che ammutolisce
l'ornitologa che, dopo l'attacco al paese, trova il suo sapere
etologico completamente distrutto, annullato. Non c'è modo di
esprimere questo vuoto travolgente, derivato dalla modificazione
delle relazioni che innervavano il precedente sapere, se non con
l'afonia. Così Lydia, condensa in sè l'angoscia dovuta al
pericolo ornitologico, all'angoscia che essa rappresenta nell'ambito
familiare, dove gelosamente cerca di allontanare ogni pretendente
dal figlio, divenuto sostituto del marito deceduto, tentando di
preservare quel poco di ordine che la sostiene. In luogo
dell'angoscia, come componente della struttura dinamica della
significazione, il film quindi acquista significazione sia da un
punto di vista drammatico che strutturale.
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